La recensione di "Riccardo III", per la regia di Luca Ariano in scena al Teatro India di Roma fino al 10 Novembre

Recensione a cura di Mario Turco

Che cazzo di finale! Come se fosse quel fulmine black-metal che squarcia a più riprese la scena nelle battute dell’ultimo atto, ecco che il primo giudizio sul meraviglioso “Riccardo III”, di Luca Ariano, prodotto dalla Fondazione Teatro di Roma in collaborazione con Lubox Produzioni Artistiche ed in scena al Teatro India di Roma fino al 10 Novembre, è volutamente affidato ad un’esclamazione altrettanto violenta, un tramestio di velocissimi ed urlati suoni che vogliono colpire occhi/orecchie degli spettatori come per un’ora e cinquanta minuti ha fatto il suddetto spettacolo. E speriamo che anche il nostro uditorio come quello della pièce, in quel caso, volutamente raccolto – per precisa disposizione del regista la platea accoglie soltanto 60 posti, e quasi tutti a ridosso del palco, come nei teatri off o quelli dalle ridotte possibilità economiche – si lasci guidare quasi sgomento a questa sontuosa rilettura che unisce in maniera mirabile la cruda lingua di strada di Shakespeare ad un apparato visivo che flirta con l’arte visuale e performatica. Un’astrazione scenografica che fa uso di pannelli con colorazione cangiante, ancorata però alchemicamente al terreno dell’epocale dramma che aveva gonfiato, col giovanile gusto dell’eccesso che contrassegnava la prima produzione del drammaturgo inglese, il ritratto del duca di York fino a farlo diventare uno dei cattivi più famosi se non della Storia (come hanno da tempo appurato gli studiosi) quantomeno della letteratura di ogni tempo. 


Riccardo III è interpretato dal fenomenale Pietro Faiella che mette tutta la sua immensa tecnica interpretativa al servizio di un personaggio complesso e che ha, come ben sa chi conosce la tragedia, un capovolgimento di personalità abissale e, oltretutto, difficile da rendere credibile. L’attore invece zoppica magnificamente subdolo tra il Duca di Buckingam (Alessandro Moser) e Margherita d’Anjou (Romina Delmonte, potentissima quando maledice come un’ “immonda strega grinzosa”), tessendo fermamente la sua tela di raggiri, omicidi ed intrighi politici atti a farlo assidere sul trono d’Inghilterra. Il futuro re padroneggia così tanto i destini di accoliti e nemici da “chiamare” in tutta la prima parte, con furtivi gesti della mano deforme, i loro ingressi e i cambi di luce che ne segnano le svolte più importanti – che bella scelta di regia -, come quel “ministro dell’inferno” inesorabile e spietato che tutti sanno e sospettano essere ma nessuno è in grado di arrestare. Questo Riccardo III non lesina sul sangue versato dall’infido cospiratore ma piuttosto che renderlo visivamente esplicito tramite il solito profluvio ematico preferisce agire su una stimolazione diversa e più moderna. Il biancore luccicante della messa in scena che per gran parte della rappresentazione accompagna le malevoli manovre dell’infanticida - “Sanguinario sei e sanguinaria sarà la tua fine” - fa sì che che l’attenzione verta sugli splendidi dialoghi e monologhi, recitati da una compagnia tesissima e con un valore medio davvero alto anche nei più giovani o mediatici rappresentanti. E se nella prima parte prevale un parco e calibratissimo uso delle musiche classiche, ecco che nella seconda i leitmotiv di requiem vari diventano ossessioni. Rolling Stones, Radiohead e Frank Sinatra intervengono inoltre a più riprese a rendere riconoscibile e, allo stesso tempo, sottilmente straniante l’ubriacatura di Potere che porta alla definitiva insalubrità mentale il vituperato monarca che, ad un certo punto, “non ha più figli di sangue regale da trucidare”. 


Riccardo III, nelle mani di Ariano, mantiene la stessa gravitas shakeasperiana ma insuffla all’interno di una tragedia fin troppo barocca e ricolma di personaggi allarmistici rimandi alla perpetua sete di dominio che affligge anche gli uomini più comuni. Così quando l’ultima parete mobile si chiude sul viso del moribondo signore di Gloucester, con una carrellata all’indietro che insieme alle note di “My way” non possono non ricordare uno dei finali ad effetto di Martin Scorsese (tanti dei suoi criminali non sono re mancati?), rimane l’urticante sensazione di aver assistito al sogno infranto di un uomo che voleva solo tentare l’assalto al cielo: non è questo, in fondo, il capitalismo del 2024?

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