La recensione di "La vegetariana", per la regia di Daria Deflorian in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 3 Novembre

Recensione a cura di Mario Turco

Con l’assegnazione alla scrittrice sudcoreana Han Kang, l’edizione 2024 del premio Nobel per la letteratura ha ottemperato a quello che dovrebbe essere la sua primaria ragion d’essere. Che non è soltanto quello di certificare tardivamente la statura di un autore ma segnalare un percorso di ricerca sicuramente affermato ma ancora in grado di accogliere in sé i segni del tempo. Una fotografia dell’oggi più che del ieri, insomma, e con un occhio rivolto al domani perché capace di porsi al crocevia di diversi discorsi artistici, spesso complementari e in alcuni casi splendidamente divergenti. È quello che abbiamo pensato con “La vegetariana” che per la regia di Daria Deflorian sarà in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 3 Novembre. 


Una trasposizione che pur avvalendosi della commerciale stringa (e per un’arte poco commerciale come il teatro si passa sopra volentieri a tecniche che invece l’editoria e il cinema cavalcano ignobilmente) “scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024", risale in realtà ad un anno prima che il mondo generalista s’accorgesse dell’autrice pubblicata in Italia da Adelphi, come si può evincere dai tanti e forti crediti di questa produzione INDEX, in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival; TPE – Teatro Piemonte Europa; Triennale Milano Teatro; Odéon–Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse, con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini; Istituto Culturale Coreano in Italiae con il supporto di MiC – Ministero della Cultura. Yeong-hye (una Monica Piseddu che incredibilmente pare perdere peso proprio durante le due ore di spettacolo) è una donna che passa le giornate accontentandosi di essere l’ “insignificante” moglie del signor Cheong. Una notte però comincia a togliere dal frigorifero gli alimenti a base di carne e quando il marito (Gabriele Portoghese che colora magnificamente di machismo represso nostrano un personaggio tipicamente coreano) chiede spiegazioni di questa sua improvvisa svolta vegetariana ella si limita a rispondere kafkianamente: “Ho fatto un sogno”. Da quel momento in poi attraverso le testimonianze del consorte, del febbricitante ed artistoide cognato e dell’addolorata ma inerte sorella (la stessa Daria Deflorian), lo spettatore conoscerà le conseguenze sempre più estreme di una scelta che abbraccia sia ribellione etica che la più estrema filosofia anacoreta per esondare, quasi necessariamente, nei territori dell’insalubrità mentale. 


La vegetariana è un testo raffinato e iperletterario che riesce a trattare con gusto squisitamente orientale alcune tematiche e suggestioni riconducibili ad inquietudini occidentali. La scenografia di Daniele Spanò è eccezionale nel rilanciare attraverso colori e suoni oscuri i rimandi alle angosce di Gregor Samsa e dello scrivano Bartleby che paiono essere alla base dell’incubo prima e del rifiuto della passata quotidianità dopo fatto in maniera così pervicace e misterioso da Yeong-hye. Lo spettro di situazioni alienanti a cui “l’evento” – Annie Ernaux aleggia su questa rappresentazione anche grazie all’esperienza teatrale della regista che più volte in passato ne ha portato sul palco i testi – ha fatto giungere è sintomatico della crisi che avvolgeva in nuce la famiglia della protagonista e che la donna, come una specie di vittima sacrificale, ha solo portato a compimento. Se in alcuni momenti la pièce forza la mano con simbolismi audiovisivi che flirtano troppo spudoratamente con la videoarte concettualmente più facile – il letto messo in verticale, la perturbante invasione della vegetazione -, è invece mirabile nel lasciare aperte le tantissime aporie della protagonista: questa “vegetariana” è una folle santa, una mistica o una donna la cui mente è andata in pezzi dopo anni di piccoli e grandi soprusi? In fondo, la cognizione del dolore è ancora lo spettacolo più abissale ed imperscrutabile su cui affacciarsi

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