La recensione di "Proserpina e le altre", di Mariangela Barbanente e Francesco Masi in onda lunedì 25 novembre 2024 in seconda serata su La 7, in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne

Recensione a cura di Mario Turco

Le recenti esternazioni del Ministro dell'Istruzione e del Merito sull’avvenuto superamento, da parte solo degli italiani ma non dei migranti illegali, della cultura patriarcale potrebbero fare da ironica didascalia iniziale al documentario "Proserpina e le altre", di Mariangela Barbanente e Francesco Masi, prodotto da GA&A Productions con il patrocinio di Fondazione Marisa Bellisario e che andrà in onda lunedì 25 novembre 2024 in seconda serata su La 7, in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Scritto dalla stessa regista con la collaborazione di Consuelo Lollobrigida, questo mediometraggio di nemmeno un'ora si pone il lindo obiettivo di essere un piccolo studio audiovisivo, grazie al contributo di studiosi dell'arte, sull'incidenza del "male gaze" - mai esplicitamente citato, è il difetto di un'analisi che parla con linguaggi leggermente inattuali - nella cultura pittorica e scultorea classica. 


Il documentario vuole porsi per usare le parole delle note della regista, come "uno spunto di riflessione per guardare con occhi nuovi a tanti capolavori di fama mondiale e di fornire gli strumenti per riconoscere la violenza in tutti gli ambiti e in tutte le sue forme". Proserpina e le altre ha un incipit chiaramente esplicativo di questa finalità educativa dato che si apre seguendo quattro adolescenti che vedono per la prima volta il "Ratto di Proserpina", di Bernardo e Francesco Maria Schiaffino, conservato nei lussureggianti spazi della Galleria degli Specchi del Palazzo Reale di Genova. Sono i loro occhi e le loro voci a riconoscere che dietro quella plasticità marmorea che omaggia l'opera di Bernini c'è, ben visibile per chi non ha ancora subito i cascami più deleteri della tradizione culturale occidentale, la violenza di un rapimento che la mitologia greca ha reso "naturale" per spiegare il ciclo delle stagioni. Come dice una delle esperte intervistate, il problema non più rinviabile è di continuare a guardare queste opere con la moderna consapevolezza che fino al più recente passato "gli stupri erano presentati come la norma dei rapporti tra uomo e donna". Perché se oggi rifiutiamo, almeno pubblicamente, con orrore i femminicidi dell'attualità "se lo stesso atto violento lo percepiamo nell'opera d'arte ne veniamo invece rapiti". Ma se questo è indubitabilmente vero per singole immagini ecco allora che i due registi forzano la mano di quest’assunto presentando un impressionante carrellata di dipinti con soggetti che hanno uomini prevaricatori che picchiano donne abusate: questo semplice scorrimento basta a nauseare lo spettatore. Come richiamato a più riprese negli interventi, naturalmente la risposta alla non più mostrabile sopraffazione di genere non è la semplice censura delle opere del passato ma un inquadramento più consapevole da parte dei curatori di mostre, la presenza di disclaimer e/o didascalie appropriate e magari l’accostamento con i moderni e femministi modi di superare questo modo di intendere simili tematiche. 


“Quello che si dimentica troppo spesso è il dolore, l’abuso” che, ad esempio, il mitologico Ratto delle Sabine ha scelto per secoli di nascondere nelle sue migliaia di famose rappresentazioni, ad eterna perpetuazione di rapporti di potere tribali e patriarcali. Proserpina e le altre propone quindi una delle più famose ribellioni a questo modo complice di racconto ricordando la clamorosa protesta fatta da un gruppo di attiviste nel 2024 durante la mostra su Artemisia Gentileschi a Genova che insozzarono la terribile “camera dello stupro” e rifiutarono il prono accostamento con le opere di Agostino Tassi, il suo seviziatore. Pur procedendo per salti e balzelli a volte leggermente forzati (Degas presentato come un miracolo unico e irripetibile di sensibilità, Frida Kahlo e Marina Abramovic come pioniere femministe), il documentario di Barbanente e Masi ha il merito di indovinare e fornire alcune giuste suggestioni. Le fortissimi performance di Ana Mendieta, incentrate sull’oscena visibilità delle conseguenze dello stupro come corpi sepolti nei campi, visi insanguinati, tazze di gabinetti divelte durante l’atto di violenza sono il contributo più grande al rovesciamento di prospettiva che sempre più donne e (sempre troppo pochi) uomini stanno attuando nell’arte. Un’ultima notazione ci sentiamo di farla sull’assenza finale delle voci dei ragazzi, relegati soltanto a quel prologo citato sopra: è solo parlando con loro, accogliendo e fugando i loro dubbi, che possiamo buttare giù la narrazione istituzionale della violenza di genere.

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