La recensione di "Re Lear", per la regia di Gabriele Lavia al Teatro Argentina di Roma fino al 22 dicembre
Recensione a cura di Mario Turco
Chi è il Re Lear, si chiede Gabriele Lavia in una delle tante interviste che l'attore milanese ha concesso ai giornali, palesando ancora una volta quel perenne e instancabile impegno da interprete completamente al servizio dell'opera che rappresenta in quel dato momento. Ma la domanda che ci poniamo noi più umilmente è, invece, chi è quel "vecchio saggio" che a 82 anni - e che con l'istrionismo dei grandissimi modifica una battuta del testo di William Shakespeare per ricordarlo anche al pubblico! - decide di interpretare il monarca nell'adattamento di "Re Lear" da lui diretto e che sarà in scena al Teatro Argentina dal 26 novembre al 22 dicembre.Dopo 40 anni dal debutto del 1972 che lo vide interprete del ruolo di Edgar nello spettacolo diretto da Giorgio Strehler, ecco che la scelta di Gabriele Lavia di vestire i panni dell'anziano protagonista in questa produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura risponde in maniera nuova ed imprevedibile ad entrambi i quesiti. Perché Re Lear è un Gabriele Lavia che con voce stanca e qualche inciampo mnemonico - possibile? Sì, possibile anche in chi maneggia un simile testo da decenni leggendolo più volte anche in pubblico: l'età, shakespearianamente, non fa prigionieri - si muove sulle rovine fisiche e psiche create dalla bella scenografia di Alessandro Camera. Ma Gabriele Lavia è anche un Re Lear finalmente magnanimo che suddivide il suo regno attoriale tra i "figli" Giuseppe Benvegna e Ian Gualdani, nei panni rispettivamente di Edgar e Edmund. In uno spettacolo che non espunge nulla del testo originale mantenendo le tre ore di durata, questo Re Lear si pone come apertura della stagione del Teatro Argentina come una specie di monito e ritorno all'antico: i classici vanno rispettati e trasposti in una versione che ne rilanci i sempiterni temi di base senza ri-attualizzazioni semantiche che ne pieghino a proprio vantaggio ideologico le robuste basi di partenza. La modernità di Shakespeare è infatti uno dei non-segreti della sua arte che la nuova regia di Lavia esalta e illumina attraverso il nutrito cast di 14 interpreti. Gli opulenti costumi di Andrea Viotti sono difatti l'unica concessione visiva al barocco interpretativo e sono bilanciati da un uso invece molto canonico – forse fin troppo: il cambio di scene è sempre "annunciato", come una dissolvenza cinematografica nei film muti - delle luci di Giuseppe Filipponio e delle musiche di Antonio Di Pofi.
Con la rinuncia ai fondali che possano dare un riferimento geografico a favore invece di spazi che paiono rimasugli di un teatro abbandonato, i personaggi diventano subito marionette manovrate dal destino che nasce dalla scelta sbagliata di Re Lear di abdicare al suo ruolo. Le due mattanze familiari hanno infatti un’unica causa: l’accettazione supina del sovrano di Britannia alla dura legge urlata da Edmund nel pieno del suo delirio di potenza: “i vecchi cadono, i giovani salgono”. Che il declinante Potere vada accompagnato più che sostituito o rovesciato con intrighi è la lezione di Shakespeare che il regista ed interprete Lavia fa propria perché anche se la sua presenza scenica rimane importante – al celeberrimo “Siete uomini o pietre? Avessi io le vostre gole e i vostri occhi, urlerei e piangerei fino a mandare in frantumi la volta del cielo”, la volta del teatro ha tremato di commozione -, mai come in questo caso si è avvertita la serena accettazione del passaggio di consegne. “Gli uomini non possono essere migliori dell’epoca in cui vivono” è allora l’invito ad uno sguardo che sappia aprirsi anche agli Altri (“Poveri nudi sventurati; o voi, che ovunque siate soggiacete ai colpi di questo temporale inesorabile. Come potranno mai le vostre teste senza riparo, i vostri fianchi scarni, i vostri stracci pieni di feritoie e di finestre difendervi da simili intemperie?") di regni e posti lontani dal proprio ma che il Tempo, a differenza del proprio ormai passato, corteggerà capricciosamente per qualche decennio. Lear, tornato uomo dopo la detenzione e non più sovrano capriccioso che pretendeva di avere il proprio seguito di 100 soldati armati, stringe tra le proprie braccia Cordelia, morta per eccesso di coscienza filiale: amaro ma unico possibile apologo per la carriera di un re del teatro che ha saputo emanciparsi dalla tragicità del suo personaggio solo, naturalmente, interpretandolo.