La recensione de "La leggenda del santo bevitore", di Joseph Roth che adattato e diretto da Andrée Ruth Shammah sarà in scena al Teatro India di Roma fino al 2 marzo

Recensione a cura di Mario Turco

C'è sempre un'atmosfera di sospensione quando un grandissimo e vegliardo attore di teatro recita sul palcoscenico. Il pubblico è sospeso tra due poli, tra loro inizialmente opposti e soltanto alla fine concilianti: da una parte ci si attende, perfidamente, un passo falso della memoria che certifichi la fine della lunga carriera dell'interprete mentre dall'altra si sobbalza ad ogni minima incertezza mnemonica nell'attesa, quasi religiosa, che lo straordinario miracolo laico si rinnovi anche in questa fase così avanzata di un percorso culturale inimitabile. L'abbiamo sperimentato nel recente passato con Ivan Orsini che a quasi 90 anni dava corpo e anima ad un Ivan Karamazov ancora straziato dal suo dialogo con Satana e l'abbiamo rivisto anche l’altro ieri durante "La leggenda del santo bevitore", di Joseph Roth che, adattato e diretto da Andrée Ruth Shammah, sarà in scena al Teatro India di Roma fino al 2 marzo. 


A ricoprire il ruolo del protagonista Andreas Kartak in questa produzione Teatro Franco Parenti è infatti Carlo Cecchi che, a 86 anni, si cala perfettamente in una parte che ha sì una forte componente empatica ma che richiede un grado di immedesimazione altrettanto marcata. La storia del clochard che racconta in prima persona l'ultima parte della sua esistenza funestata e allo stesso tempo alleggerita da magici e poetici scherzi del destino è infatti attraversabile soltanto da un corpo e un'anima che hanno condiviso, fosse anche solo per un periodo, quella levità di tocco esistenziale. Da questo punto di vista, Cecchi è una formidabile personificazione del vecchio avvinazzato: attraverso lo strascicamento (dettato dall'anagrafe? O riprodotto con incredibile maestria? Importa nulla ai fini della sua riuscita perché il teatro non è solo mestiere) di alcune parole, la traballante resa dei fatti che sembra davvero nascere dai bicchieri di troppo di acquavite e di Pernod, e una certa stanchezza ravvisabile nell'affastellarsi quasi rapsodico dei numerosi piccoli/straordinari incontri raccontati al barista sembra davvero di essere al bar messo in piedi dalla bella scenografia di Gianmaurizio Fercioni. 


La leggenda del santo bevitore asseconda il flusso di coscienza del suo protagonista, “un signore maturo vestito elegantemente”, intervenendo di rado col puntellamento di una colonna sonora struggente che va da Stravinskij al jazz e che fa più da capoverso ad ogni porzione compiuta di testo che un vero e proprio accompagnamento. Anche gli interventi video di Luca Scarzella e Vinicio Bordin sono poco invasivi e giocano sul rilancio melanconico della Parigi di inizio Novecento, tra le peregrinazioni di Andreas che partono dal ponte sulla Senna (in cui “i giornali tengono caldo, come sanno tutti i vagabondi”), passano da Montmartre e finiscono nella chiesa in cui dare l’obolo di “duecento franchi” alla santa Teresa di Lisieux. La regia di Shammah in appena un’ora e mezza di durata dà ampio spazio alla cifra affabulatoria del testo scegliendo di non dar viva presenza alla Caroline, quel viso per il quale “andare in prigione”, né al calciatore famoso che era stato suo compagno di banco o al minatore con cui scolarsi il denaro trovato per caso nel portafogli usato comprato in una rigatteria. Così “questa soffice e lenta discesa nel nulla” ha la potenza autografa di un racconto che si muove tra i rumori del bar – ottima la scelta di microfonare il bancone, così da far sentire il tintinnio dei bicchieri e lo scorrere alcolico – e la stesura continua compiuta da Andreas delle sue quotidiane avventure, scritta in un taccuino che contribuisce a ricordare la misura autobiografica del testo scritto da Roth. La leggenda del santo bevitore conferma allora anche in questa versione la natura gentile della sua visione (non solo la continua fortuna economica del protagonista ma anche la scelta di elidere gli accidenti di una vita errabonda) lasciando che per una sera si possa davvero sorprendersi di fronte alla splendida casualità di una vita ai margini. Soltanto per una sera, però, perché “a nulla si abituano gli uomini più facilmente che ai miracoli”.

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