La recensione di "Macbeth", di Filippo Gili in scena al Teatro Argot Studio fino al 9 marzo

Recensione a cura di Mario Turco

Un capolavoro è tale soltanto se può essere smembrato, fatto a pezzi, ricomposto in maniere strane e distantissime dall'originale. Il genio è tale solo se riesce a scrivere un'opera che faccia da canovaccio a quelli di altri artisti eccezionali, se avalla anche da morto riletture di gente che non è nemmeno così sicura di aver qualcosa da spartire con lui. Il teatro è tale quando non ha paura di portare il repertorio classico in territori sconosciuti e pericolosi, senza la rete di salvataggio delle mille rappresentazioni passate e ardendo superare la boa delle aspettative del pubblico. E un autore è tale solo quando prende il classico di un genio e lo porta a teatro piegandolo alle sue esigenze poetiche ma con una deferenza, un affetto e, allo stesso tempo, una ribalderia notevoli arrivando ad un testo autonomo di grandissimo spessore. 


Con "Macbeth", di Filippo Gili in scena al Teatro Studio Argot di Roma fino al 9 marzo abbiamo l'esempio perfetto di cosa voglia dire portare in scena splendidamente la rilettura di uno dei testi fondamentali della letteratura occidentale riuscendo a fare sia un discorso culturale che rilanci in chiave moderna alcuni dei suoi argomenti e, perché no, delle sue aporie, sia ad essere un coltissimo trampolino di lancio per alcuni spunti e idiosincrasie personali. Come spesso nelle produzioni Argot (considerato anche lo spazio non particolarmente largo del "palco"), l'essenzialità della scena consente innanzitutto di provare una vicinanza fisica coi due protagonisti dello spettacolo che è propedeutica alla riuscita di un testo che gioca molto con l'immedesimazione fisica ed intellettuale. Il Macbeth, interpretato da un bravissimo Massimiliano Bruno, che entra in scena non indossa infatti costumi di scena o insegne militari ma è vestito con pantaloni e camicia neri. Parla stancamente, strascicandosi contrariato per la stanza fino a quando vede "una roba appesa al cielo", un "elmo magico con una voce dentro" che lo irride prima surrettiziamente poi platealmente fino al celebre saluto (ma detto con una risata!) "Salve, Macbeth! salve a te, che sarai Re". Questa profezia lo destabilizza, gli incrina la principale certezza che sta nella fedeltà al sovrano e accende la brace della sua ambizione. Brace che però non ha statura tragica o drammatica perché, nella prima di tante bellissime invenzioni/interpretazioni viste con gli occhi dell'attualità, è il dialogo con il suo doppio più scanzonato e sibillino, interpretato da un Filippo Gili via via sempre più fenomenale, a spingerlo verso i tanti eccidi che lo faranno diventare re di Scozia. Ecco che i due, immersi in un confronto che ha il cazzeggio di un post-sbronza tra due amici, cominciano infatti a concertare il diabolico piano che porterà "sangue ovunque": Gili, con gusto da callido esegeta, quando vuole sa come esaltare i momenti topici dell'originale. Concupito da questo diabolico e mellifluo compagno, il neo-signore di Cawdor continua allora, con divertente paralisi, ad oscillare tra il rifiuto della corona - "quello che vogliamo ardentemente lo vogliamo santamente", "a noi nelle vene scorre latte e bontà" - e coscienza criminale - "L'innocenza la perde il cervello, non la perde la mano". 


Nelle mani del regista romano, Macbeth mantiene sì l’ossatura fattuale – comunque esplicabile soltanto da un pubblico che conosce bene il plot: Gili esige preparazione ma ripaga con generosa intelligenza – ma diventa, nella sua veloce ora e mezza di durata, rispettivamente una commedia bislacca alla Coen (“La matematica ama l’unità ma fa sesso coi decimali”), un brioso spettacolo metateatrale e una formidabile disamina giuridica/etica su quanto sia esecrabile uccidere i rampolli dei nemici (“Guarda bene questi occhi: i bambini non si ammazzano”). Nel bailamme di crisi personali (“Il tradimento è un cattivo padre ma fa ottimi figli”), urla fuori scena, pugnali invisibili e colpe lavate con pantomime, Macbeth si conserva per il finale la visione di una diapositiva in cui si vede l’adulto che sarebbe diventato quell’infante trucidato. Che in quella istantanea in bianco e nero ci sia proprio il sanguinario re di Scozia è la vertigine di senso che chiude uno spettacolo incredibilmente profondo e inaspettato come il “nessun nato da vulva ti batterà mai”.

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