La recensione di "Sarabanda", di Ingmar Bergman che per la regia di Roberto Andò è in scena al Teatro Argentina di Roma fino all'1 Giugno
Recensione a cura di Mario Turco
Con "Sarabanda", di Ingmar Bergman con la traduzione di Renato Zatti in scena al Teatro Argentina di Roma fino all'1 giugno, il regista compie quindi ancora una volta un'operazione illuminata dando lustro a questo bellissimo testo. Ultimo film scritto e diretto dal regista di "Il settimo sigillo" e andato in onda sulla tv svedese nel 2003 (in Italia soltanto in orario notturno da Rai3 nella sempre preziosa trasmissione "Fuori Orario"), Sarabanda è il seguito del ben più famoso "Scene da un matrimonio". Questa produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo, in accordo con Arcadia & Ricono Ltd, per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, (agente del copyright), Londra, per conto della Ingmar Bergman Foundation, riporta in particolare in scena i due protagonisti della serie del 1973: Johan (un gigantesco Renato Carpentieri) e Marianne (un'altrettanto monumentale Alvia Reale) adattandoli anche anagraficamente all'età dei loro interpreti. Una prima novità che consente di dare ulteriore materiale alla riflessione bergmaniana sulle macerie di tempo e distanza che qualunque rapporto, in particolare quelli affettivi e familiari, accumula nel suo pietroso alveo di non detti. La differenza che intercorre tra i 63 anni di lei, tornata improvvisamente nella casa dell'uomo con cui è stata sposata per 20 anni col dubbio di averlo amato davvero, e gli 85 di lui, vegliardo e quasi immobile professore in pensione ritiratosi nell'isolamento in attesa di una morte di cui finge di non aver paura ma in realtà al centro delle sue ossessioni, è rilanciata da quella ancora più evidente dell'altra coppia protagonista di questa sarabanda dolorosissima. Il musicista Henrik (uno splendidamente untuoso Elia Schilton) e la figlia diciannovenne Karin (la bravissima Caterina Tieghi) hanno un rapporto che supera morbosamente la relazione padre-figlia non tanto per il sottotesto incestuoso (vediamo i due risvegliarsi seminudi nello stesso letto e baciarsi in bocca in più occasioni), quanto per la gabbia sentimentale in cui entrambi si costringono dopo la morte della venerata da entrambi Anne, moglie per il primo e madre per la seconda. Proprio l'assenza-presenza di questa donna, collante di una casa che pur tra rancori e ingiustizie personali riusciva negli anni precedenti alla sua morte per malattia a non disunirsi in modo catastrofico, fa in modo che l'odio tra Johan e il figlio Henrik adesso sia libero di marcire in un umiliante odio che rende cattivo l'anziano padre e bugiardo quello più giovane.
Sarabanda procede di scena in scena mostrando il quieto precipitare umano dei suoi protagonisti, ognuno incastrato nei suoi vizi (la nevrastenia di Karin, l’amore tossico di Henrik, le bugie fedifraghe di Johan, il masochismo affettivo di Marianne), in una danza dissonante di solitudine e incomunicabilità che le attente musiche di Hubert Westkemper e le pittoriche (Rembrandt e Hopper i rimandi più immediati di alcuni dei frammenti più abissali) scene di Gianni Carluccio contribuiscono ad elevare. Ma l’anima dello spettacolo resta la regia di Andò che non calca mai la mano su un testo inguaribilmente pregno del miglior realismo pessimista di Bergman, giungendo a uno splendido e soffocante (per lo spettatore) finale in cui l’urlo nudo di Johan chiude il sipario su quell’agglutinante crogiuolo di merda – che nota psicologica di divino acume le scatologiche escandescenze del vegliardo patriarca – e sangue che è la famiglia a tutte le latitudini.