La recensione di "Antropophagus: Le origini", di Dario Germani nelle sale dal 28 luglio distribuito da Flat Parioli
Recensione di Mario Turco
Proprio il film del poliedrico e attivo regista romano è l'epitome del limbo infernale in cui i più raccapriccianti lungometraggi del nostro paese siano stati condannati (anche se noi additiamo un po' di colpa anche agli esponenti di questa generazione): invece di introiettare la lezioni dei maestri del passato e provare ad indicare personali forme da cui ripartire, si cerca di portare quei modelli all'oggi attraverso ripensamenti che risultano spesso deboli. Antropophagus: Le origini è infatti un prequel e un sequel di uno degli splatter più cult dell'età dell'oro del sangue italico, ovvero quell'Antropophagus diretto da Joe D’Amato e di cui lo stesso Germani ha già dato nel 2022 la tarda continuazione con Antropophagus II. Sceneggiato dallo stesso Germani insieme ad Andrea Fucà e Pierpaolo Marcelli, il film parte in medias res: Hanna (Valentina Corti, la cui ottima scelta di casting viene sprecata da una recitazione monocorde) è ricoverata in stato di shock all'ospedale e, allo stesso tempo, è fortemente sospettata di aver assassinato il compagno, fatto brutalmente a pezzi nella loro casa. Presto accusata formalmente di omicidio, la giovane donna è costretta a scappare in Ungheria per difendere l’unica ragione di vita che le è rimasta: il figlio che non sapeva di portare in grembo e di cui è stata informata soltanto mentre era ricoverata per le ferite. A Budapest chiede aiuto a suo cugino Hugo (il bravo Salvatore Li Causi che ci mette impegno anche nelle scene più modeste, come gli inseguimenti), che la trascina però in una spirale di violenza destinata a coinvolgere un oscuro passato e una discendenza di sangue con cui fare i conti…
Antropophagus: Le origini è un film così legato a un’idea di cinema fandomica da rinunciare da subito a qualunque spazio di autonomia interpretativa. Germani è difatti un regista formalmente corretto, fin troppo: l’idea, ad esempio, di girare nel formato 1:66, come nel capostipite di D’Amato, non tiene conto del fatto di come quella scelta non fosse un vezzo d’autore ma un limite produttivo del tempo. Così replicare quella verticalità col digitale saturo di oggi fa in modo che il film assomigli più a un prodotto televisivo da prime-time Rai piuttosto che un’opera destinata a perturbare gli stomaci. Anche la creazione dell’origin story dell’antropofagia della famiglia Wortmann che contemporaneamente prosegue nella progenie rappresentata dai due protagonisti è sì un geometrico e affettuoso omaggio ma che non riesce mai a prendere la giusta distanza o fornire qualche diversa chiave interpretativa della semplice reiterazione diabolica al male. Il fatto che la coazione a cibarsi dei propri simili si trasmetta per via genetica e non sia più un retaggio sociale o culturale dovuto magari a drammatiche circostanze (l’antefatto della seconda guerra mondiale nelle fogne di Budapest) è, in fondo, un’immagine perfetta di ciò che il film di Germani è: quella che un tempo era una necessità – il gore shock dei 70/80 – è nel 2025 una forza che, non adeguatamente capita o rielaborata, diventa solo autodistruttiva. Di quella tendenza Antropophagus: Le origini recupera paradossalmente più il mood che le schifose frattaglie vere e proprie mancando, infine, proprio l’obiettivo di riportare (aver seguito i suggerimenti di calmare i bollenti orrori dopo Antropopaghus II è il tipico errore di voler assecondare le bolle social) quel “bad taste” di allora in una società che dopo aver visto tutto e non sapere nulla è arrivato al suo esatto opposto.