La recensione di "Unicorni", di Michela Andreozzi nelle sale dal 18 Luglio distribuito da Vision

Recensione a cura di Mario Turco

A distanza di pochi giorni dalla sua dipartita, ci è capitato di pensare in maniera illuminante a Goffredo Fofi. L’idea principale del pensatore eugubino (guai a usare la parola intellettuale quando era in vita, pena una paternale feroce come solo lui poteva fare!) era che il cinema fosse non solo una forma d’arte ma uno strumento di analisi sociale e di trasformazione in grado di rendere anche i lungometraggi all’apparenza più gassosi meritevoli di interesse per l’impatto che essi possono avere sul tessuto sempre più visuale della realtà. 


Con “Unicorni”, di Michela Andreozzi nelle sale dal 18 Luglio grazie a Vision Distribution questo argomento critico prende forma viva riuscendo nella sua semplicità a farsi specchio dell’immagine della società dei nostri tempi. Pur essendo un classico esempio di cinema a tesi, l’ultima fatica della regista romana si situa all’incrocio di diverse linee artistiche e politiche di urgente attualità che lo rendono il manifesto visibile delle tensioni che in questi giorni stanno interessando particolarmente il farraginoso sistema del tax-credit con la conseguente stretta che probabilmente i film non allineati alla temperie dell’attualità si troveranno ad avere. Unicorni infatti racconta il percorso umano e paterno sperimentato da Lucio (un Edoardo Pesce finalmente libero di recitare in modo classico e senza mugugni), conduttore di una fortunata trasmissione radiofonica e sposato in seconde nozze con Elena (Valentina Lodovini). La prima scena setta in modo forse un po’ didascalico ma preciso l’ambiente culturale che l’uomo ha installato nel suo progressista nucleo familiare: nel luculliano pranzo attento a tutte le diversità culturali ed etniche – ci sono portate vegane, gluten free, senza carne per la signora musulmana e con solo carne per il destrorso direttore della radio – di questa famiglia allargata che include anche la prima moglie e l’altra figlia ecco comparire Blu (Daniele Scardini, gran colpo di casting), il bambino di 9 anni figlio di Lucio e Elena, dall’aria efebica e che adora vestirsi da femmina. Attenti e premurosi nell’assecondare lo sviluppo personale del figlio tanto da permettergli di indossare “abiti da femmine” in casa, i due genitori vanno però in crisi quando il piccolo compie un passo ulteriore chiedendo di poter recitare nei panni della sirenetta nel saggio scolastico di fine anno. Lucio e Valentina si rivolgono allora ad una psicoterapeuta (la stessa Michela Andreozzi che senza infingimenti si ritaglia puntuali “spiegoni” su concetti come varianza di genere e cross-dressing) che li metterà a contatto, in complicate sedute di gruppo, con altri genitori di questi figli “unicorni”. In un percorso contrassegnato da cadute nel tossico testosteronismo e il crollo delle proprie certezze moderniste, Lucio imparerà realmente ad accettare Blu per quello che è e che vuole essere… 


Unicorni compie da subito un'interessante scelta di campo mostrando come l’identità di genere sia un tabù anche nelle famiglie più apertamente di sinistra: una figlia adolescente con la chioma viola e i piercing impegnata in una relazione poliamorosa è infinitamente più facile da accettare di un bambino che gioca con le bambole. Pur continuando a dare fin troppo facili colpi di maglio ai tradizionalisti più retrogradi (dall’influencer maschilista al pensatore destrorso fino alla nuova proprietaria della radio politicamente vicina al governo, la regista esagera nel mettere in fila i mostri di quella che è evidentemente una parte ideologicamente avversa alla sua), il film riesce quindi a mostrare con buona empatia la difficile armonia tra una visione ancora tradizionalista della genitorialità – “i no che aiutano a crescere”, la ricerca ostinata della difesa dell’infanzia a scapito dell’affermazione, il modellamento della propria prole a propria immagine e somiglianza - e istanze del sé che si sono inderogabilmente precocizzate. Così anche la scelta di non rinunciare ai soliti spazi della commedia – la condomina impicciona, il burino fissato col calcio, i cinquantenni alle prese con tinder – risultano comunque funzionali sia alla verosimiglianza della storia sia all’allargamento di queste codificate forme cinematografiche a temi che finalmente cominciano a diventare di senso comune. Unicorni ha la sensibilità di una fiaba morale che si ferma sempre un attimo prima dell’ammonimento mostrando, per tornare a Goffredo Fofi, come il senso intellettuale di un’epoca risieda non nei suoi esponenti più illuminati ma in quelli che più umilmente stanno nelle retrovie.

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