"UNA SEMPLICE STORIA A NATALE" di Marco Ernst
Secondo una comune accezione, fortuna e sfortuna non esistono, ma siamo noi stessi a crearci a volte l’una, a volte l’altra.
Forse è vero, ma se queste esistessero Armando V. sarebbe l’esemplificazione della seconda.
Lui è un giovane uomo intelligente e sensibile, certamente troppo per potersi adattare a un ambiente dove la prepotenza e l’arroganza spesso sono dominanti.
Si era laureato, con un certo ritardo, in lettere, con una tesi di storia dell’arte. Il suo grande amore era ed è, infatti, la pittura: in realtà i suoi quadri sono troppo intimisti, troppo personali per poter colpire chi li guarda.
Non aveva mai venduto una sola tela malgrado l’indubbio talento, così spesso riutilizzava le tele per dipingere le sue lacrime, la sua malinconia, le sue delusioni, i suoi fallimenti su vecchi dipinti che nessuno aveva mai preso in considerazione.
Rimasto orfano quando era ancora studente universitario, aveva oramai quasi dilapidato la misera eredità dei suoi, frutto di una vita di sacrifici.
Non che gli mancasse la buona volontà, infatti si era da sempre adattato a qualsiasi mestiere, considerando umiliante solo la disonestà, non i lavori che pure non sfruttavano la sua cultura e il suo titolo di studio.
Così, appena rimasto solo, aveva fatto il cameriere in una pizzeria, poi si era adattato a fare le pulizie notturne in uffici; aveva anche provato a insegnare, facendo delle supplenze nei licei, ma col suo carattere mite era stato in breve “sbranato” dai suoi alunni.
Ovviamente anche in campo sentimentale la sua vita era stata un vero disastro: il suo amore era troppo grande e puro per poter essere capito, proprio come i suoi quadri. In tal modo aveva molto amato, molto sofferto, ma mai era stato ricambiato da nessuna delle ragazze delle quali s’innamorava con una frequenza imbarazzante.
Ora era, come sempre solo e con un discreto numero di debiti (non dovuti a spese voluttuarie, ma a quelle quotidiane: affitto, bollette eccetera.).
Va da se che era anche disoccupato e, di conseguenza disperato, con un conto in banca che oramai avrebbe fatto ridere anche un bambino delle elementari che ha sicuramente accumulato di più solo con le mance dell’ultimo compleanno.
Si avvicinava anche Natale: non che avesse parenti o amici ai quali fare regali, che peraltro era una cosa che gli sarebbe piaciuto fare, ma aveva delle scadenze di pagamenti di fine anno impellenti.
Si era rivolto a supermercati, negozi, grandi magazzini per avere, perlomeno, un lavoro temporaneo, come commesso o fattorino o magazziniere o anche addetto alle pulizie, ma questi preferivano ragazzi più giovani che potevano essere pagati di meno e, a giudizio dei loro datori di lavoro, davano maggiori garanzie di robustezza e sveltezza.
Qualcosa doveva inventarsi per sbarcare il lunario.
Decise allora di riprendere in mano tele e pennelli e, sistematosi sotto i portici del centro, cercare di vendere anche a poco qualche tela dipinta di fresco.
Sospettava, anzi, era quasi sicuro, che con la sua sfortuna sarebbe stato subito multato da qualche vigile urbano troppo zelante e poco disposto ad essere avvolto dal clima di bontà natalizio.
Doveva comunque tentare, non aveva alternative, a costo di doversi dare a fughe poco onorevoli.
Così, indossati due o tre maglioni per difendersi dal freddo pungente del dicembre avanzato, sciarpa, berretto di lana e guanti con le dita tagliate, si scelse un angolo il più possibile protetto dai venti gelidi e il più possibile visibile dai passanti e cominciò a dipingere ciò che si sentiva: un salice in riva ad un piccolo lago sotto la pioggia, poi una campagna brulla coperta da un velo di neve con un sole pallido e triste appena sorto all’orizzonte.
Ancora un albero spoglio in autunno avanzato con un uccelletto che, disperato ricercava il suo nido disperso dai venti impetuosi. Questa era la sua pittura: non ciò che la gente vuole vedere a Natale, ma ciò che il suo cuore ferito gli suggeriva.
I passanti si chiamano così perché passano; poi a Natale sono ancora più veloci, pieni di freddo e di fretta, con già nelle mani la lista dei regali da fare e poco disposti a una spesa extra per un quadretto che metteva loro tristezza, mentre invece si costringevano all’allegria festaiola che in questo periodo è più dovuta che sentita.
L’ultimo quadro che aveva dipinto rappresentava un piccolo borgo sommerso da una nevicata imponente, con un bambino di spalle che a capo chino trascinava un camioncino di legno che non poteva sfruttare su quelle strade troppo soffici e bianche.
Questa volta qualcuno si fermò a guardare il dipinto: era un bambino di sette, otto anni, che una madre distratta e sciagurata aveva lasciato ad attenderla fuori da un’illuminatissima profumeria stracolma di signore ben vestite.
Il piccolo guardò a lungo il quadretto in silenzio poi, rivoltosi ad Armando gli disse: “Sai, è il quadro più bello che ho mai visto! Mi piacerebbe regalarlo al mio papà, che non vive con noi, ma non ho molti soldi”
“Un euro!”, gli disse d’istinto Armando.
Il bimbo rimase per un istante a bocca aperta, poi fece un largo sorriso a mostrare un paio di dentini caduti ed estrasse in tutta fretta, prima che l’uomo ci ripensasse, cinque monete da venti centesimi e le porse ad Armando che gli allungò il quadro avvolto in un foglio di giornale. Fu un attimo e il sorriso sdentato del bambino era già sparito nella profumeria in cerca della madre alla quale mostrare il suo acquisto.
Armando si alzò e si avviò verso casa: era felice, aveva venduto il suo primo quadro.
Adesso, era sicuro, la sua fortuna sarebbe cambiata.
Era il Natale più bello della sua vita.
Secondo una comune accezione, fortuna e sfortuna non esistono, ma siamo noi stessi a crearci a volte l’una, a volte l’altra.
Forse è vero, ma se queste esistessero Armando V. sarebbe l’esemplificazione della seconda.
Lui è un giovane uomo intelligente e sensibile, certamente troppo per potersi adattare a un ambiente dove la prepotenza e l’arroganza spesso sono dominanti.
Si era laureato, con un certo ritardo, in lettere, con una tesi di storia dell’arte. Il suo grande amore era ed è, infatti, la pittura: in realtà i suoi quadri sono troppo intimisti, troppo personali per poter colpire chi li guarda.
Non aveva mai venduto una sola tela malgrado l’indubbio talento, così spesso riutilizzava le tele per dipingere le sue lacrime, la sua malinconia, le sue delusioni, i suoi fallimenti su vecchi dipinti che nessuno aveva mai preso in considerazione.
Rimasto orfano quando era ancora studente universitario, aveva oramai quasi dilapidato la misera eredità dei suoi, frutto di una vita di sacrifici.
Non che gli mancasse la buona volontà, infatti si era da sempre adattato a qualsiasi mestiere, considerando umiliante solo la disonestà, non i lavori che pure non sfruttavano la sua cultura e il suo titolo di studio.
Così, appena rimasto solo, aveva fatto il cameriere in una pizzeria, poi si era adattato a fare le pulizie notturne in uffici; aveva anche provato a insegnare, facendo delle supplenze nei licei, ma col suo carattere mite era stato in breve “sbranato” dai suoi alunni.
Ovviamente anche in campo sentimentale la sua vita era stata un vero disastro: il suo amore era troppo grande e puro per poter essere capito, proprio come i suoi quadri. In tal modo aveva molto amato, molto sofferto, ma mai era stato ricambiato da nessuna delle ragazze delle quali s’innamorava con una frequenza imbarazzante.
Ora era, come sempre solo e con un discreto numero di debiti (non dovuti a spese voluttuarie, ma a quelle quotidiane: affitto, bollette eccetera.).
Va da se che era anche disoccupato e, di conseguenza disperato, con un conto in banca che oramai avrebbe fatto ridere anche un bambino delle elementari che ha sicuramente accumulato di più solo con le mance dell’ultimo compleanno.
Si avvicinava anche Natale: non che avesse parenti o amici ai quali fare regali, che peraltro era una cosa che gli sarebbe piaciuto fare, ma aveva delle scadenze di pagamenti di fine anno impellenti.
Si era rivolto a supermercati, negozi, grandi magazzini per avere, perlomeno, un lavoro temporaneo, come commesso o fattorino o magazziniere o anche addetto alle pulizie, ma questi preferivano ragazzi più giovani che potevano essere pagati di meno e, a giudizio dei loro datori di lavoro, davano maggiori garanzie di robustezza e sveltezza.
Qualcosa doveva inventarsi per sbarcare il lunario.
Decise allora di riprendere in mano tele e pennelli e, sistematosi sotto i portici del centro, cercare di vendere anche a poco qualche tela dipinta di fresco.
Sospettava, anzi, era quasi sicuro, che con la sua sfortuna sarebbe stato subito multato da qualche vigile urbano troppo zelante e poco disposto ad essere avvolto dal clima di bontà natalizio.
Doveva comunque tentare, non aveva alternative, a costo di doversi dare a fughe poco onorevoli.
Così, indossati due o tre maglioni per difendersi dal freddo pungente del dicembre avanzato, sciarpa, berretto di lana e guanti con le dita tagliate, si scelse un angolo il più possibile protetto dai venti gelidi e il più possibile visibile dai passanti e cominciò a dipingere ciò che si sentiva: un salice in riva ad un piccolo lago sotto la pioggia, poi una campagna brulla coperta da un velo di neve con un sole pallido e triste appena sorto all’orizzonte.
Ancora un albero spoglio in autunno avanzato con un uccelletto che, disperato ricercava il suo nido disperso dai venti impetuosi. Questa era la sua pittura: non ciò che la gente vuole vedere a Natale, ma ciò che il suo cuore ferito gli suggeriva.
I passanti si chiamano così perché passano; poi a Natale sono ancora più veloci, pieni di freddo e di fretta, con già nelle mani la lista dei regali da fare e poco disposti a una spesa extra per un quadretto che metteva loro tristezza, mentre invece si costringevano all’allegria festaiola che in questo periodo è più dovuta che sentita.
L’ultimo quadro che aveva dipinto rappresentava un piccolo borgo sommerso da una nevicata imponente, con un bambino di spalle che a capo chino trascinava un camioncino di legno che non poteva sfruttare su quelle strade troppo soffici e bianche.
Questa volta qualcuno si fermò a guardare il dipinto: era un bambino di sette, otto anni, che una madre distratta e sciagurata aveva lasciato ad attenderla fuori da un’illuminatissima profumeria stracolma di signore ben vestite.
Il piccolo guardò a lungo il quadretto in silenzio poi, rivoltosi ad Armando gli disse: “Sai, è il quadro più bello che ho mai visto! Mi piacerebbe regalarlo al mio papà, che non vive con noi, ma non ho molti soldi”
“Un euro!”, gli disse d’istinto Armando.
Il bimbo rimase per un istante a bocca aperta, poi fece un largo sorriso a mostrare un paio di dentini caduti ed estrasse in tutta fretta, prima che l’uomo ci ripensasse, cinque monete da venti centesimi e le porse ad Armando che gli allungò il quadro avvolto in un foglio di giornale. Fu un attimo e il sorriso sdentato del bambino era già sparito nella profumeria in cerca della madre alla quale mostrare il suo acquisto.
Armando si alzò e si avviò verso casa: era felice, aveva venduto il suo primo quadro.
Adesso, era sicuro, la sua fortuna sarebbe cambiata.
Era il Natale più bello della sua vita.