Recensione: Il film noir americano, di Leonardo Grandini

Titolo: Il film noir americano
Autore: Leonardo Grandini
Editore: Lindau
Pagine: 159
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 16,00 €

Recensione a cura di Mario Turco 


Uno dei generi più potenti del cinema in grado di attivare connessioni visuali, tematiche, narrative non appena viene nominato, è il noir. Strano destino per un filone di pellicole che non avevano coscienza di sé quando furono girate e che furono investite con questa etichetta soltanto nella metà degli anni Cinquanta, quando quella stagione era abbondantemente in declino. Comincia con questa interessante puntualizzazione il saggio di Leonardo GandiniIl film noir americano”, giunto oramai alla terza edizione per la collana Il grande cinema grazie allo
sforzo della casa editrice Lindau. 

Professore di Storia del cinema ed Estetica del cinema all'Università di Modena e Reggio Emilia e da sempre attento osservatore della cinematografia statunitense, l'autore del libro propone un'intensa operazione filologica cercando innanzitutto di fare chiarezza su quali siano le principali caratteristiche ascrivibili al genere. Come scrive James Naremore, autore di un importante contributo sull'argomento “il film noir appartiene alla storie delle idee quanto a quella del cinema” e perciò nel corso degli anni il dibattito che si è sviluppato non ha avuto definizioni oggettive. Landini nel primo capitolo del libro tenta perciò di fare chiarezza partendo dal testo fondamentale di Raymond Borde ed Etienne Chaumeton, “Panorama du film noir américain” che ha proposto una prima localizzazione e la fortunata terminologia di base poi adottata dagli altri saggisti. Sfronda quindi alcune riletture parziali anche se famose, come quella del critico e regista Paul Schrader che ne amplia a suo avviso fin troppo i confini, selezionando i macro-temi che gli studiosi di cinema più accorti hanno saputo evidenziare. 

Nel secondo capitolo il professore confuta uno dei luoghi comuni più pervicaci del genere: la discendenza diretta del noir dalla letteratura hard-boiled. Come evidenziato attraverso la proposizione di passi diretti dei libri da cui sono tratti e le relative versioni filmiche, le opere di Dashiell Hammett e Raymond Chandler che hanno trovato la via della sala hanno subito significativi aggiustamenti che li hanno allontanati dai materiali di partenza e hanno contribuito a ridefinirne i canoni cinematograficamente peculiari. Innegabile ad esempio, più che le analogie con l'espressionismo tedesco rifiutate da Gandini, i debiti con l'iconografia degli horror degli anni 30 dove le ombre, le inquadrature scentrate, i chiaroscuri ben si prestano al clima moralmente ambiguo e ansiogeno dei soggetti criminali raccontati da questi film. Pur non essendo meramente riconducibili al poliziesco capolavori come “La fiamma del peccato”, di Billy Wilder, “Il grande sonno”, di Howard Hawks ed “Il mistero del falco” di John Huston nel decennio di massimo fulgore del genere sfruttano la connessione col tema del delitto per continuare a sondare il male insito nell'animo umano, operazione cominciata appunto dai classici di paura della Warner e della RKO. 

Ma il capitolo probabilmente più incisivo del lavoro di Gandini e vero turning point argomentativo che condiziona anche i seguenti è il terzo, dove ad essere sviscerata è la cifra onirica del noir. Sembra quasi che la nebbia visiva presente in tante opere sia il correlato oggettivo della mancanza di lucidità dei protagonisti delle opere sezionate. L'autore del saggio fa una gustosa summa dei personaggi alle prese con deliri e visioni dovute all'alienabilità dei caratteri rappresentati. Rifiutando il realismo figurativo degli altri generi, il noir fa del continuo onirismo la rappresentazione esistenziale delle difficoltà sociali dei suoi personaggi. Ed è a causa di questa forte tesi concettuale che Gandini fa un salto cronologico di diversi anni tralasciando del tutto il neo-noir degli anni Settanta/Ottanta (“Chinatown”, di Roman Polanski e “Brivido caldo”, di Lawrence Kasdan tanto per fare due esempi) che a suo modo di vedere ne replica pedissequamente lo stile senza l'acutezza di una riflessione originale. L'ultimo regista che ha recuperato l'onirismo morboso del noir per il saggista è David Lynch di cui nelle ultime pagine vengono analizzati con dovizia i due film più vicini al genere, “Velluto blu” e “Strade perdute”. Il libro termina bruscamente così lasciando l'amaro in bocca per un lavoro complementare che si occupi di analizzare le invece numerosissime influenze postume.

L'AUTORE
Leonardo Gandini è professore di Storia del cinema ed Estetica del cinema all’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha scritto saggi e monografie sul cinema hollywoodiano classico e contemporaneo, sulla regia cinematografica e sulla rappresentazione della violenza e la questione dell'identità nel cinema degli anni Duemila.

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