Recensione a cura di Mario Turco
C'è innanzitutto la volontà di continuare a ricordare gli orrori del secolo scorso compiuti dai nazisti non solo verso gli ebrei ma anche verso il secondo popolo più perseguitato dai tedeschi del tempo, a cui pochissimo spazio è dato nelle varie giornate europee della memoria: i rom. Nonostante la scelta di fare della propria protagonista un'appartenente ad una delle etnie più invise a livello mondiale a qualunque latitudine, “The secret – Le verità nascoste” sembra non voler contrariare un target di riferimento evidentemente commerciale non facendo nemmeno una notazione all'interno della sua durata di questo genocidio. Asciugando così tanto la componente critica, Adler si butta quindi a capofitto sui modi e sui tempi del dramma casalingo. Se l'ossatura del film richiama il capolavoro di Roman Polanski “La morte e la fanciulla”, non ne replica però, come detto, né la portata politica né la tensiva claustrofobia. Dopo un inizio promettente in medias res ed una bella cura per l'immagine, “The secret – Le verità nascoste” si precipita con troppa meccanicità verso una doppiezza di fondo da classico thriller della domenica. Giocando in maniera piuttosto falsa su alcuni spunti (le carte che attestano l'identità svizzera di Thomas, i riferimenti forzosi ai suoi incubi notturni) cerca di coinvolgere lo spettatore in una pura vicenda di scioglimento tramico piuttosto che una seria riflessione sull'insostenibilità del trauma psicologico. L'ossessione di Maja non solleva dubbi etici nel marito (Chris Messina) fino al finale dove egli si farà carico dei dilemmi della consorte in una maniera sicuramente inaspettata ma, ancora una volta, limitata a salvaguardare la stabilità del nucleo familiare.
Cercando di unire il pubblico al privato quest'ultimo lato, come spesso avviene il film del genere, finisce per avere la prevalenza ed una storia sulla carta potente, in grado di farsi carico paradigma proprio per via della sua specificità romanzesca (lo stesso Lewis riflette in maniera quasi meta-cinematografica sull'assurdità del fatto che un boia tedesco abbia trovato lavoro in una fabbrica sperduta della provincia statunitense dove abita la vittima che ancora gli toglie il sonno) diventa smorzato pretesto per una teorizzazione sulla vacuità di una pur giusta vendetta. Dopo lo stupro e l'assassinio di una sorella si può, a distanza di anni e di esperienze, perdonare chi ha preso coscienza dei propri crimini? Una domanda che Adler si pone in una maniera più televisiva che cinematografica e che invece di terremotare le coscienze al massimo le fa saltellare per un'ora e mezza.