La recensione di "Rifkin's festival", di Woody Allen in sala dal 6 Maggio

Recensione a cura di Mario Turco

Non è solo Woody Allen da quarant'anni a fare lo stesso film, siamo anche noi cinefili a scrivere sempre le stesse critiche. Misurarsi quasi annualmente con un film del regista newyorchese vuol dire in fondo fare i conti con le proprie inveterate abitudini spettatoriali, lasciando in molti casi che siano aspettative o delusioni a tessere le fila della nostra visione. Con “Rifkin's Festival”, in sala dal 6 Maggio grazie a Vision Distribution, tornare a respirare il suo cinema da dietro una mascherina diventa forse l'occasione più feconda per liberarsi dalle gabbie interpretative del recente passato. L'ultimo film di Allen è un testamento artistico talmente sfacciato che probabilmente, per la grandiosa ironia della vita che il più famoso schlimazel del cinema ben conosce, contribuirà ad allungargli la vita di un altro bel po'. Rifkin's Festival è infatti, come forse nemmeno nel recente passato, totalmente apolitico (l'unica battuta in tal senso riguarda naturalmente la questione israelo-palestinese ma è puro repertorio cabarettistico), totalmente a-sociale (Allen i borghesi continua a conoscerli dai grandi e piccoli libri), totalmente a-geografico (San Sebastián più che markettone turistico sembra uscire dalle fantasie di una massaia dell'Arkansas). 


Woody Allen fa un film alla Woody Allen anche questa volta ma, per soprammercato, come se gli fosse stato commissionato proprio dagli organizzatori del festival spagnolo in cui il lungometraggio è ambientato in occasione di una retrospettiva a lui dedicata. Così Rifkin's Festival è non solo il festival della mente del suo eponimo protagonista, interpretato con grazia da Wallace Shawn (e qui Allen si conferma ancora straordinario nello studio delle variazioni dei suoi alter-ego) ma quello dell'intera filmografia del regista newyorchese all'interno della storia del cinema. I sogni, spesso significativamente ad occhi aperti, dell'attempato professore di cinema alle prese col suo primo romanzo letterario – di nuovo l'ossessione di aver sprecato tempo a fare film invece di confrontarsi con i grandi maestri della letteratura come Proust e Dostoevskiji – modellati supinamente sui capolavori della settima arte sono la definitiva accettazione del suo posto all'interno di quella stessa Storia che si continua con pervicace umiltà ad ammirare dal basso. In Rifkin's Festival Allen infatti esaspera ancora di più tutti i suoi cliché, specialmente quelli sentimentali (la bella moglie che s'innamora del regista vanesio, l'affascinante dottoressa masochisticamente attratta da relazioni tossiche) divertendosi a re-interpretarli come se fossero stati girati da Fellini, Bergman, Truffaut, Lelouch e Godard. 


Se appare un po' banalotta la scelta dei titoli omaggiati, da Persona a Jules et Jim fino ad arrivare a Fino all'ultimo respiro, ciò che invece stupisce è la verve comica delle battute. Ve ne sono almeno un paio – quella sulla Morte de Il settimo sigillo interpretata da Christoph Waltz e l'intero spezzone in soggettiva di 8 e ½ – che entrano da subito nella classifica delle cose più divertenti mai scritte da Allen. E che fanno subito pensare a cosa sarebbe potuto essere l'intero film se avesse perseguito questa riscrittura personalissima dell'immaginario del Novecento invece di replicare la girandola giurassica di turbamenti sentimentali che affliggono l'ultima produzione del regista. Nella quarta collaborazione con Vittorio Storaro a dirigere la fotografia, il film scivola inoltre in un preziosismo cromatico che, senza arrivare ai vertici de La ruota delle meraviglie, contribuisce in quella fuga del verosimile in cui i film del buon vecchio Woody si sono auto-imprigionati da quasi tre decenni. In Rifkin's Festival Allen così sembra dare l'addio alle scene fornendo agli spettatori la confezione filtrata dei suoi manierismi visivi, filosofici ed esistenziali (il ritorno alla psicanalisi e soprattutto la domanda aperta del finale) in un'opera che sceglie, invece di farne la summa, di presentarli casualmente disposti in un episodio qualunque della sua filmografia. Perché, si sa, l'addio più straziante è quello interrotto piuttosto che quello preparato e il genio più vero quello che balbetta invece di congedarsi.

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