La recensione dello spettacolo "La morte della Pizia", di Friedrich Dürrenmatt per la regia di Giuseppe Marini in scena al Teatro Vittoria fino al 15 Ottobre

Recensione a cura di Mario Turco

Lo ha scritto in maniera formidabile il teologo Vito Mancuso: “Il mito è più vero della storia. Ciò che è storico è realmente accaduto una volta, ciò che è mitico accade realmente ogni giorno” ma lo ha semplificato ancora di più nella solita geniale maniera Stanisław Jerzy Lec: “Quando un mito viene a cozzare contro un altro mito, lo scontro è quanto mai reale”. Sulla necessità della narrazioni mitiche anche e soprattutto in tempi di guerra, il consenso di filosofi, psicanalisti e storici è pressoché unanime: solo attraverso le costruzioni sedimentate presso il proprio alveo narrativo – che fortunatamente spesso è lo stesso presso cui si abbeverano le diverse genti – i popoli riescono a dirimere le questioni più dirimenti delle loro esistenze. Ma il mito non è mai sacro ed immutabile come un precetto vergato su tavole della legge perché la sua incredibile forza sta proprio in questa specie di “variazione totemica” che lo rende lavorabile ed allo stesso tempo incrollabile come il cemento. 


Una delle più formidabili dissertazioni teoriche-letterarie, in questo senso, della seconda metà del Novecento è “La morte della Pizia”, di Friedrich Dürrenmatt che viene messo in scena al Teatro Vittoria di Roma fino al 15 Ottobre per la regia di Giuseppe Marini e il bell’adattamento operato da Patrizia La Fonte e Irene Lösch sull’ormai classica edizione Adelphi tradotta da Renata Colorni. Pur nella straordinaria pregnanza del breve racconto originale dello scrittore e drammaturgo svizzero, le 68 pagine del testo rappresentavano un ostacolo quasi insormontabile per una sua rappresentazione teatrale perché Dürrenmatt quando fa letteratura usa una scrittura molto allegorica, in grado di scardinare il senso comunemente accettato delle parole e dei loro legami sintattici e che sicuramente non si esaurisce durante una prima lettura/ascolto. Inoltre, come dimostrato dalle poche fortunate trasposizioni delle sue opere (“La promessa”, di Sean Penn basato sull’omonimo romanzo e “La più bella serata della mia vita”, di Ettore Scola che allarga di molto “La panne”), bisogna non restare eccessivamente avvinti all’intraducibile scrittura originale quanto trovare un buon modo per tradirla e renderlo proprio. Questa versione de “La morte della Pizia” dapprima sembra provare la strada dell’esasperazione comica: la sacerdotessa e veggente Pannychis ed il suo sensale Merops infatti si scambiano battute, maldicenze e lamentele cercando di desacralizzare tutto il “business” religioso che gira attorno l’oracolo di Delfi (molto riuscito in questo senso il leitmotiv sulla costruzione del nuovo tempio) attraverso la spiegazione prosaica dei suoi responsi (le esalazioni ed i vapori, come era noto agli stessi Greci, ma anche la loro tendenza a cercare nell’irrazionale la risposta ai loro problemi razionali). 


Le interpretazioni di La Fonte e Palladino, pur simpatiche, abbassano però la piéce al livello di una caricatura non molto raffinata – non aiutano nemmeno la svogliata introduzione fuori scena e le furbesche musiche di Paolo Coletta - che ha fin troppo facile gioco nel leggere con gli occhi secolari dell’oggi i decreti sedicenti divini dell’ieri. Per fortuna, però, la regia di Marini non ha paura ad assecondare con forza la torsione di stile che impegna il testo di Dürrenmatt con l’entrata in scena di Edipo, a cui la Pizia un po’ per gioco, un po’ per dispetto, un po’ per rivalsa sociale aveva lanciato il più celebre ed implausibile dei responsi perfino per gli stessi Greci, ovvero l’uccisione del padre e l’unione carnale con la madre. Con la famiglia più tormentata della storia culturale occidentale – solo gli Atridi si avvicinano alla loro sofferenza – “La morte della Pizia” abbandona i caratteri ironici che ne avevano contraddistinto fino a lì l’andatura per diventare una vertiginosa divagazione sulle mille verità che il mito racchiude dentro di sé. Non solo come profezia che si auto-avvera dato che, come noto, Edipo è stato mosso da particolare ferocia verso Laio proprio perché sapeva che solo attraverso il patricidio si sarebbe avverato il suo destino di re ma anche come realtà da far emergere, come nel caso che egli abbia giaciuto carnalmente con la Sfinge, la sua vera madre. Ecco che delle quattro versioni della tragedia di Edipo fornite dai personaggi tutte hanno lo stesso valore perché sono tutte ugualmente possibilità di un oracolo consapevole che solo la propria menzogna possa essere foriera di verità in un mondo privo di certezze epistemiche : “Le ombre sono più vere della realtà quando ci si crede”. Lo splendido dialogo tra Tiresia e la lettrice oramai renitente dei suoi messaggi di Potere – altra apicale riflessione sulla natura profondamente conservatrice dei misteri eterodiretti del mito – chiude in maniera perfetta uno spettacolo che era saputo diventare, appena nell’arco del suo svolgimento, magistrale.

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