La recensione di "Fuori", di Mario Martone nelle sale dal 22 maggio grazie a 01 Distribution

Recensione a cura di Mario Turco

Nel mondo culturale italiano il caso di Goliarda Sapienza non è di certo un unicum. La riscoperta dell'autrice catanese negli ultimi vent'anni dice probabilmente più dei sensi di colpa ma anche, inestricabilmente connesso a questi eterni cascami della nostra tradizione, della visione lungimirante di alcuni esponenti della nostra intellighenzia. La foga con cui si sono recuperate nell'arco di pochissimo tempo le sue opere - “L'arte della gioia”, il suo romanzo più celebre, è diventato una scintillante e barocca serie tv diretta da Valerio Golino - donandole nuova vita editoriale è sempre accompagnata e quasi soverchiata dal dato biografico: compagna per 17 anni del regista Citto Maselli, poi moglie dello scrittore Angelo Pellegrino, ha vissuto inoltre la sua bisessualità in anticipo sui tempi in maniera libera e poco ideologica. Un genio nascosto, misconosciuto in vita e contemporaneamente pioniere di tematiche giuste come, appunto l'amore di genere e l'esperienza carceraria: ce n'è abbastanza per farne il nuovo santino istituzionale (le sono già state dedicate, a parziale e anche questa imperitura riparazione postuma, strade e busti). E a definitivo suggello di questo profluvio d'opere giunge oggi probabilmente il suo tassello più importante e poetico, un omaggio artistico ma anche una reinterpretazione autoriale della sua eccezionale figura: "Fuori", di Mario Martone dal 22 maggio nelle sale italiane grazie a 01 Distribution. 


Unico lungometraggio italiano in gara per il Concorso alla 78esima edizione del Festival di Cannes, il film del regista napoletano è tratto liberamente da due romanzi autobiografici di Sapienza, editi da Einaudi, “L’università di Rebibbia” e “La certezza del dubbio”. Fuori è un film che però rifiuta le gabbie del biopic servendosi piuttosto del materiale originario come un pentagramma su cui scrivere note fattuali di dodecafonica bellezza. Anzi, più volte Martone, che firma insieme alla moglie Ippolita Di Majo la sceneggiatura, sembra quasi librarsi aero sulla calda estate del 1980 vissuta dalla caotica Goliardia - interpretata splendidamente da Valeria Golino: speriamo che sulla Croisette le diano un doveroso premio alla ricerca, più che della verità dei rabdomantici pezzi di vita che appaiono sullo schermo, delle sensazioni che essi emanano, di quei sentimenti che non vengono quasi mai esplicitati ma sono sempre pulsanti ad ogni inquadratura. Con una tenerezza complice, il regista partenopeo entra in punta di piedi nelle peregrinazioni di Sapienza e nella sua allergia ai salotti letterari in cui viene sempre meno invitata perché distanti dal suo modo di essere, lei che è così aliena ai mezzucci dello spietato mondo editoriale (le saltuarie revisioni di bozze altrui e gli ancor più radi articoli di giornali propri). Così solo la breve esperienza nel carcere femminile dopo la condanna per il furto dei gioielli della sua amante e mecenate le dà la possibilità di conoscere altre donne inquiete come lei. "Quelle donne a Rebibbia stanno dentro anche quando stanno fuori, così quando siamo insieme mi sento dentro anche io, libera" riassume lei stessa in maniera poco letteraria ma incisiva. Ecco, Fuori funziona splendidamente quando dimentica di far parlare i testi piuttosto che ricordarne il prezioso lascito: in questo senso la cassapanca con L’arte della gioia filmata come fosse un tesoro letterario o lo spezzone televisivo con Enzo Biagi sui titoli di coda spengono un po’ l’ardore esistenziale fin lì mostrato.


L’acme della tensione emotiva/erotica/caratteriale della pellicola di Martone sta invece nella scena del finale alla stazione Termini di Roma che, nella sua apparente semplicità, chiude invece il rapporto con la vera protagonista del film, la Roberta interpretata da una bravissima Matilde De Angelis. In quello scartafaccio con la corrispondenza dei detenuti alberga il cuore di un film che rivela il testamento artistico e personale di una “divora-storie” che non avrebbe avuto certamente bisogno di strilli da quarta di copertina per essere cinematograficamente elegiaca come è in Fuori. È solo una nota a piè pagina e come tale il lettore può saltarla ma noi ci sentiamo di farla: abbiamo ancora bisogno della chiosa umidamente paternalista che riconosce Sapienza come “una delle più grandi scrittrici del Novecento” per riconoscere il valore di un’autrice?

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