Recensione a cura di Mario Turco
Unico lungometraggio italiano in gara per il Concorso alla 78esima edizione del Festival di Cannes, il film del regista napoletano è tratto liberamente da due romanzi autobiografici di Sapienza, editi da Einaudi, “L’università di Rebibbia” e “La certezza del dubbio”. Fuori è un film che però rifiuta le gabbie del biopic servendosi piuttosto del materiale originario come un pentagramma su cui scrivere note fattuali di dodecafonica bellezza. Anzi, più volte Martone, che firma insieme alla moglie Ippolita Di Majo la sceneggiatura, sembra quasi librarsi aero sulla calda estate del 1980 vissuta dalla caotica Goliardia - interpretata splendidamente da Valeria Golino: speriamo che sulla Croisette le diano un doveroso premio alla ricerca, più che della verità dei rabdomantici pezzi di vita che appaiono sullo schermo, delle sensazioni che essi emanano, di quei sentimenti che non vengono quasi mai esplicitati ma sono sempre pulsanti ad ogni inquadratura. Con una tenerezza complice, il regista partenopeo entra in punta di piedi nelle peregrinazioni di Sapienza e nella sua allergia ai salotti letterari in cui viene sempre meno invitata perché distanti dal suo modo di essere, lei che è così aliena ai mezzucci dello spietato mondo editoriale (le saltuarie revisioni di bozze altrui e gli ancor più radi articoli di giornali propri). Così solo la breve esperienza nel carcere femminile dopo la condanna per il furto dei gioielli della sua amante e mecenate le dà la possibilità di conoscere altre donne inquiete come lei. "Quelle donne a Rebibbia stanno dentro anche quando stanno fuori, così quando siamo insieme mi sento dentro anche io, libera" riassume lei stessa in maniera poco letteraria ma incisiva. Ecco, Fuori funziona splendidamente quando dimentica di far parlare i testi piuttosto che ricordarne il prezioso lascito: in questo senso la cassapanca con L’arte della gioia filmata come fosse un tesoro letterario o lo spezzone televisivo con Enzo Biagi sui titoli di coda spengono un po’ l’ardore esistenziale fin lì mostrato.
L’acme della tensione emotiva/erotica/caratteriale della pellicola di Martone sta invece nella scena del finale alla stazione Termini di Roma che, nella sua apparente semplicità, chiude invece il rapporto con la vera protagonista del film, la Roberta interpretata da una bravissima Matilde De Angelis. In quello scartafaccio con la corrispondenza dei detenuti alberga il cuore di un film che rivela il testamento artistico e personale di una “divora-storie” che non avrebbe avuto certamente bisogno di strilli da quarta di copertina per essere cinematograficamente elegiaca come è in Fuori. È solo una nota a piè pagina e come tale il lettore può saltarla ma noi ci sentiamo di farla: abbiamo ancora bisogno della chiosa umidamente paternalista che riconosce Sapienza come “una delle più grandi scrittrici del Novecento” per riconoscere il valore di un’autrice?