La recensione del film "Operazione Hummingbird - E' tutto appeso a un filo", di Kim Nguyen

Recensione a cura di Mario Turco

Pochi, pochissimi eventi all'apparenza sono meno cinematografici degli scavi effettuati da una società di telecomunicazioni per posare i cavi in fibra ottica in un dato territorio. All'apparenza, perché Operazione Hummingbird - È tutto appeso a un filo (The Hummingbird Project, il titolo originale) diretto da Kim Nguyen è invece un grande film che sposta ancora una volta più in là il limite del sottogenere ingegneristico-scientifico che da “La grande scommessa” di Adam McKay in poi sta spopolando nelle cinematografie di tutto il mondo. Modellata sull'esperienza politica sembra infatti che anche nelle forme audiovisuali, dopo la rivincita dei nerd, sia in corso quella dei tecnici. Così l'idea di raccontare il mega-progetto pensato per mettere in collegamento il Kansas e il New Jersey attraverso un cavo in fibra ottica in rigorosa linea dritta che passi perfino attraverso i Monti Appalachi, riserva protetta dallo Stato, riesce ad assurgere a dignità cinematografica e non solo documentaristica come sarebbe accaduto appena un decennio fa.


I modi con cui Nguyen, il regista canadese della pellicola, riesce a rendere avvincente una siffatta narrazione sono interessanti per la maturità teorica/pratica con cui vengono squadernati sulla pellicola. “Operazione Hummingbird”, sulla scia di film come il già citato La grande scommessa e Margin Call utilizza sin da subito e senza remore il linguaggio specialistico che la materia impone. O sarebbe meglio dire i linguaggi specialistici perché la storia si muove con equilibrio tra alta finanza, ingegneria naturalistica e perfino accenni di fisica. La scelta di Nguyen è in questo senso netta: non scendere a compromessi con la capacità interpretativa del (favoleggiato) spettatore medio, scegliendo piuttosto di contare su un intelligente pubblico di riferimento che non viene però mai sfidato sul terreno dell'erudizione pura. La sceneggiatura non indugia mai, come ad esempio nei thriller finanziari sopraccitati, su spiegoni da addetti ai lavori. Seppure sia un film infarcito di dialoghi Operazione Hummingbird riesce anche ad intessere un interessante discorso visivo tra le svariate location che si fanno stakeholder del discorso pubblico con cui gran parte dell'Occidente si confronta: le necessarie grandi opere, i grattacieli d'acciaio dove dirigenti dal carattere ancora più duro ne manovrano gli indirizzi, la Natura che ancora s'oppone al dominio del denaro, i salotti dove resistono gli ineliminabili conflitti familiari. La scrittura del regista in particolare interseca le dinamiche del capitalismo neoliberista (ma cosa non lo fa?) raccontando ancora una volta il sogno infranto dell'american hero, qui rappresentato dal protagonista Vincent. 


Cercando di guadagnare con la sua idea il millisecondo (“il battito d'ali di un colibrì”, da cui il titolo dell'opera) in grado di rendere gli operatori finanziari più veloci degli altri colleghi di Wall Street nel compiere fantastilioni di transazioni, egli vuole fornire loro un vantaggio competitivo incolmabile e contemporaneamente riscattare sé stesso dalla mediocrità cui il padre idraulico voleva destinarlo. Più che l'arricchimento, infatti, il personaggio interpretato da un Jesse Eisenberg come sempre eccezionale, persegue la favola del riscatto personale costruendosi addosso il mito sempre più statunitense del Davide contro Golia. Golia che nel suo caso è rappresentato dalla potente trader Eva Torres a cui da le sue fattezze una fin troppo divertita Salma Hayek (il “pendejo” urlato fuori dal grattacielo è macchietta di cui non si sentiva il bisogno). Forse l'unica vera pecca del film è proprio su questo versante: Nguyen non rinuncia ad inserire un paio di momenti comici che non riescono a far ridere e destabilizzano dal tono stralunato invece più propriamente perseguito. Lodevole è al contempo la caratterizzazione di Anton, cugino di Vincent e genio quasi controvoglia sul cui cervello è fondata la riuscita dell'operazione. Alexander Skarsgård, pur nascondendosi dietro protesi e chierica posticcia, riesce a rendere con tenerezza la naiveté di un uomo che vorrebbe solo lavorare ai codici e agli algoritmi lontano da questo stupido mondo. Ed ecco che allora il ritorno nel finale alla missione evangelica con Vincent, oramai malato terminale di cancro, rappresenta forse il loro vero destino: fare imprenditoria non per la velocità atemporale della fibra ottica ma per lavorare adattandosi ai cicli stagionali della campagna.

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