La recensione dello spettacolo "Morte di un commesso viaggiatore", di Arthur Miller al Teatro Quirino di Roma fino al 6 Marzo per la regia di Leo Muscato
Recensione a cura di Mario Turco
Il commesso viaggiatore protagonista dell’opera è infatti, per usare le parole del figlio Biffy, un “ipocrita” commerciante di sé stesso, più concentrato sull’immagine – i patetici taroccamenti di vendite all’amata moglie, il tentativo di mantenere un lavoro anche se non pagato – che alla salvaguardia sentimentale della sua famiglia. “Lavori tutta la vita per pagare le rate del mutuo, e quando la casa è finalmente tua, non c’è più nessuno che ci vive”, ammette da subito amaramente il 63enne Loman, interpretato da un Michele Placido che bada fin troppo a mantenere la distanza dal personaggio accentuandone la tristezza ma mantenendo a bada gli isterismi. Questa versione de “Morte di un commesso viaggiatore” si mantiene comunque molto fedele al testo originale mischiando continuamente verità e allucinazione e riproponendone la moderna struttura che fa apparire sulla scena senza soluzione di continuità sia lo svolgersi degli eventi presenti che quelli passati – uno in particolare, annunciato da piccoli segnali e fondamentale per capire l’eterna lotta tra padre e primogenito – che soprattutto i deliri della mente del protagonista, pericolosamente perseguitato dai fantasmi di opportunità mancate e deliri di senile rivincita. Le scene di Andrea Belli enfatizzano fisicamente la sordidezza di casa Logan facendo del salotto un marcio e rancido stanzone, molto lontano da quel decoro che molto più probabilmente una famiglia middle-class avrebbe invece messo in atto nella realtà. D’altronde, il vecchio capofamiglia sin dalla giovanile scelta di immettersi nel commercio aveva dimostrato di farsi circuire dalle apparenze dato che s’era lasciato abbagliare dalla facilità con cui un collega ottantenne svolgeva presumibilmente un mestiere invero faticosissimo come il commesso viaggiatore: con le ciabatte ai piedi, il suo nume tutelare sembrava piazzare i suoi prodotti ai clienti grazie a poche telefonate dalla sua camera d’albergo ottenendo perfino il loro rispetto.
Facendo di quella ‘visione’ una reliquia, Willy Loman intraprende la professione del rappresentante cercando il più possibile di piacere a tutti ed inculcando la sua filosofia ai suoi due figli maschi, Biffy ed Happy. È a loro, come spesso accade nelle famiglie statunitensi, che egli delegherà le proprie smanie di successo facendo soprattutto del primo, il più grande, il bersaglio di smodate aspettative. La pièce riesce a mantenersi in equilibrio tra la perdurante lettura politica degli eventi – il fallimento come destino nella vita di quasi tutti gli interpreti più fedeli della pratica capitalistica – e l’empatia personale verso i personaggi – l’affetto, nonostante tutto, dei due giovani verso il genitore. Il martirio di Willy Loman è quello dell’individuo del Novecento verso l’oramai insostenibile modo di produzione del secolo. Finite le rate per il frigorifero, l’aspirapolvere, il mutuo e soprattutto pagata l’ultima rata dell’assicurazione sulla vita, il vecchio venditore di tessuti deciderà di suicidarsi proprio su quell’automobile che è stata il suo cavallo di battaglia nel mestiere di commesso viaggiatore, per dare alla sua famiglia quel successo economico che non è stato in grado di assicurare loro durante la vita. Solo la moglie, interpretata da un’intensa Alvia Reale, al funerale finale non riuscirà a capacitarsi della necrofilia del denaro. Si tratta dell’ultima e più straziante sconfitta per il marito.