La recensione di "1984", per la regia di Giancarlo Nicoletti in scena al Teatro Quirino fino al 3 Novembre

Recensione a cura di Mario Turco

Di tutte le distopie che hanno segnato la seconda metà del Novecento, “1984” di George Orwell resta ancora oggi indubbiamente la più influente, sia per la denuncia ancipite del fosco futuro che ci sarebbe aspettato a nemmeno quarant’anni dalla sua uscita, sia per aver delineato con britannica meticolosità le forme politiche con cui il totalitarismo avrebbe di lì a breve piegato i principi basilari delle democrazie più robuste. Il romanzo dello scrittore inglese è difatti uno specchio buono per tutte le società – e sono sempre più numerose, a differenza delle “magnifiche sorti e progressive” che si è utopisticamente creduto per qualche tempo – che hanno messo in atto sistemi di controllo e coercizione simili a quelli prospettati con grande acume nel capolavoro orwelliano. 


Ecco allora che il “1984” che per la regia di Giancarlo Nicoletti andrà in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 3 Novembre, funziona benissimo come imago mortis di una modernità asservita più che alla tecnologia tout-court, che non è mai neutra come vorrebbero i suoi opulenti capitani, alle derive autoritarie che essa permette in maniera così pervasiva. L’adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan portato in scena sul teatro capitolino con profluvio di mezzi dalla Goldenart Production di Federica Luna Vincenti ha innanzitutto il grande pregio di cogliere con esattezza l’attualità della denuncia orwelliana. I tre pannelli iniziali su cui campeggiano due delle tante fake-news fatte dai più noti campioni di post-verità – ma aver accettato questi termini vuoti non è già neolingua?! - Trump e Putin, accompagnato da un generico allarme di Edward Snowden (la cui vicenda con l’NSA è però ormai “vecchia”: perché invece non cavalcare maggiormente l’oggi e sostituirlo magari con alcune bestialità di Benjamin Netanyahu?) sono infatti i primi agganci ad una rilettura che aggiunge con accuratezza smartphone e alienazione senza stravolgere la struttura originale. 1984 comincia con un breve prologo, affidato a una voce esterna, che succintamente spiega l’arcinoto e spaventoso futuro in cui domina l’astratto e concreto “Grande Fratello”. I dubbi che però Winston Smith (il bravo Woody Neri) nutre sulle linee di condotta imposte dal Partito per cui lavora – forse la più grande pecca di questa versione è di relegare ad una sola scena, tra l’altro non particolarmente esaustiva, il suo lavoro di riscrittura della Storia come impiegato medio del Ministero della Verità – prendono vita attraverso una moderna rappresentazione che insiste sui leitmotiv (“Cosa c’è nella stanza 101?”, “Siamo già morti” e naturalmente “Il Grande Fratello vi osserva”) e sugli incubi/distorsioni del protagonista. 


In questa prima parte, la regia di Nicoletti spezza continuamente la narrazione con fulminei cambi di scena, improvvisi blackout ed invasioni sonore (le musiche sono del bravo Orogravity) che dovrebbero rendere visibile la frammentazione psichica vissuta dal protagonista ed il suo crollo emotivo di fronte alla presa d’atto dell’enorme menzogna imbastita dal Partito. Il risultato è però un accumulo stordente di effetti scenografici che, nonostante l’aggiunta dei dialoghi senza requie dei personaggi, poco dice del contesto socio/politico ideato da Orwell. Ecco allora che l’aneddoto della bimba delatrice del padre e la scena dei due minuti d’odio diventano isole felici che avrebbero meritato di un maggior respiro. Con l’arrivo di Giulia (una magnifica Violante Placido) e di O’Brien (l’altrettanto vibrante Ninni Bruschetta), la pièce si risolleva dalla secca (cinematografica? Qui usato nel senso deleterio del termine come tentativo di raggiungere una dimensione da spettacolo tridimensionale che non si fida fino in fondo della specificità teatrale) di voler stupire a tutti i costi lo spettatore e va spedita verso un finale terribile e magnifico. Svelata la natura mendace della Confraternita e di qualunque ribellione ad essa collegata, si afferma ancora una volta “l’eterno presente il cui il Partito ha sempre ragione”. La tortura che uccide moralmente Winston e Giulia è violenta, ricolma di sangue e di psico-condizionamenti che rendono perfino bello e pieno di speranza il moralmente inaccettabile “2+2=5”. L’individuo muore ma il Grande Fratello è immortale.

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