La recensione de "L'avaro" di Molière, per la regia di Luigi Saravo, in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 22 dicembre
Recensione a cura di Mario Turco
Ha ragione, come spesso gli capita, quel gran moralista di Voltaire: "gli uomini odiano coloro che chiamano avari solo perché non ne possono cavar nulla". Insomma, la taccagneria degli altri ci disturba perché racconta molto della nostra, tanto che ce ne burliamo da secoli con un acredine spesso eccessiva che, a differenza di altri grandi vizi degli uomini, non ci muove a compassione per le condizioni socio-personali che magari l’hanno generata. Quando il denaro viene accumulato - patologicamente, chiaro, ma pur sempre senza danno altrui - in una caverna di misantropia personale lo stigma della sua mancata circonvoluzione si abbatte su questo protagonista mancato dell'unico sistema economico accettato: il capitalismo. Questa consapevolezza filosofica, capace di sovvertire una delle più radicate tradizioni del teatro comico di ogni tempo, ci abbraccia con sconforto dopo la visione de "L'avaro", di Molière che per la traduzione e adattamento di Letizia Russo va in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 22 Dicembre per la regia di Luigi Saravo.
Ha ragione, come spesso gli capita, quel gran moralista di Voltaire: "gli uomini odiano coloro che chiamano avari solo perché non ne possono cavar nulla". Insomma, la taccagneria degli altri ci disturba perché racconta molto della nostra, tanto che ce ne burliamo da secoli con un acredine spesso eccessiva che, a differenza di altri grandi vizi degli uomini, non ci muove a compassione per le condizioni socio-personali che magari l’hanno generata. Quando il denaro viene accumulato - patologicamente, chiaro, ma pur sempre senza danno altrui - in una caverna di misantropia personale lo stigma della sua mancata circonvoluzione si abbatte su questo protagonista mancato dell'unico sistema economico accettato: il capitalismo. Questa consapevolezza filosofica, capace di sovvertire una delle più radicate tradizioni del teatro comico di ogni tempo, ci abbraccia con sconforto dopo la visione de "L'avaro", di Molière che per la traduzione e adattamento di Letizia Russo va in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 22 Dicembre per la regia di Luigi Saravo.
Produzione Teatro Nazionale di Genova /Artisti Associati Gorizia /Teatro Stabile di Bolzano /Centro Teatrale Bresciano, questa versione di una delle più rappresentate commedie di tutti i tempi ha un colpo di coda finale capace di dare personalità e perfino lustro ad una rappresentazione che fino a quel momento era stato insospettabilmente fin troppo compassata. Cercando di non eccedere troppo con gli spunti modernisti che vengono forniti infatti soltanto a piccole dosi, il testo rispetta fedelmente la struttura di Molière ri-attualizzando solo qualche scambio tra i personaggi ma soprattutto svecchiando il contesto di appartenenza. È però un peccato che questo lavoro, necessario per un capolavoro che ha un ritmo pesante per gli standard attuali (la fatica dei meccanismi amorosi e delle due improbabili agnizioni che lasciano, giustamente a nostro avviso, rumorosamente basito un pubblico come quello del Quirino che evidentemente non conosceva l’originale), abbia una natura soltanto accessoria e non riesca ad incidere sulla carne non vivissima di un plot così canonico. Così i selfie proiettati sul telone che chiude la scenografia di Luigi Saravo e Lorenzo Russo Rainaldi suonano abbastanza, gioco di parole ovvio ma non così scontato recensionisticamente, telefonati, mentre gli spot pubblicitari che tormentano l’Arpagone interpretato in maniera convinta ma non convincente da Ugo Dighero hanno una cadenza tripartita talmente prevedibile da sembrare “a parte” vecchi di almeno un paio di secoli. Il problema principale di questo L’avaro è infatti di annegare, come la figlia Elisa interpretata in maniera posticcia da Elisabetta Mazzullo, nelle acque oscure di un passato da cui ci si vuol comunque far continuare a cingere ma allo stesso tempo superare con uno scatto di reni artistico adatto all’odierna ricezione.
Delle due l’una: o si sceglie di ripudiare Arpagone e il suo sorpassato teatrino familistico o lo si ripropone così com’è esaltando, negativamente o positivamente a seconda dell’interpretazione registica, i suoi caratteri, come l’irricevibile paternalismo del personaggio e il suo essere uno sugar daddy amorale che ruberebbe pure l’amata al figlio pur di accasarsi qualcuna. Ecco che le brevi parentesi stoner affidate alla musica dei Queens of the Stone Age, la pacchiana maglietta Gucci indossata da Freccia e i continui cambi di scena sono punte di spillo che sostanzialmente non riescono a trafiggere spettatori a cui sarebbe stato doveroso fornire un’interpretazione più coraggiosa di un testo che, spiace constatarlo, così com’è risulta essere un po’ âgée. Così l’unico distacco dalla materia originale che arriva con la condanna finale dell’intero gruppo di personaggi mossosi attorno ad Arpagone ha come unico effetto quello di far rimpiangere la sua tardiva messa in scena. E più della svalutata “Money” dei Pink Floyd ballata dal cast, solo la più sferzante “Pigs” avrebbe almeno potuto provato a rendere meno cocente la delusione.