La recensione de "Il giardino dei ciliegi", di Anton Čechov, per la regia di Leonardo Lidi in scena al Teatro Vascello di Roma fino all'8 dicembre
Recensione a cura di Mario Turco
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria, in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi, questa terza tappa del Progetto Čechov tradotta brillantemente da Fausto Malcovati opera un significativo rovesciamento di segni rispetto alla masnada di austere rappresentazioni che hanno occupato i palchi, piccoli e grandi, d'Italia. Le scene di Nicolas Bovey, infatti, non richiamano mimeticamente interni o campagne russe: all’interno del grande spazio vuoto nero ci sono solo bianche sedie di plastica, disseminate caoticamente come se nessuno si fosse preso la briga di sistemarle dopo la baraonda di una festa a cui non abbiamo assistito. È il primo, intelligente segnale di una riscrittura audace e moderna che pur riducendo significativamente il testo – lo spettacolo dura soltanto un’ora e quaranta – mantiene inalterati i suoi fulgori interpretativi (“Ma la faccia da bifolco ce l’ho sempre”, ammesso con spudorato candore dal parvenu Ermolaj Alekseevic Lopachin) e i suoi geniali sarcasmi (“Già una che dice che è innamorata è poco seria”). Lidi non rimane tramortito dalla preconizzazione di molti aspetti dell’ultimo capolavoro scritto da Cechov, sottolineando sì ad esempio la futura (funesta) venuta dei “villeggianti” nelle terre di Russia – overtourism e gentrificazione sono i campanelli che s’accendono quando Lenja Andreevna si rifiuta di accondiscendere al destino fatale che tocca all’avita magione – ma non facendosi inchiavardare dalla seriosità dei temi messi in scena.
I momenti più sorprendentemente alti de Il giardino dei ciliegi sono infatti dovuti alle innovazioni visive portate avanti dal giovane regista, legate in maniera icastica alla decadente ambientazione festiva e balneare. In fondo, se vogliamo contestualizzare in maniera retroattiva il testo di Cechov, esso è l’antesignano di commedie anti-borghesi feroci come “Festen” e “Gosford Park”. Insistere sulla satira al vetriolo che spesso marca i personaggi del clan di Ljubov’ Andreevna attraverso, ad esempio, il momento karaoke con “Ritornerai” di Bruno Lauzi cantata dall’arricchito Lopachin (l’unico che però va a teatro in quel covo di possidenti scialacquatori, come ricorda il regista nelle note scritte a margine della brochure d’accompagnamento) o lo sfrenato ballo che accompagna i bagordi della famiglia la sera prima della messa all’asta della casa, è allora indice della profonda comprensione di un testo ancora oggi attualissimo e perturbante. La perdita del giardino dei ciliegi è, difatti, anche oggi non la causa ma l’effetto di un malessere esistenziale traversale a tutti i membri della famiglia allargata, ognuno dannatamente tossico per sé e per gli altri anche quando “cerca la felicità”, come lo studentello trentenne come Trofimov. L’ultima nota sullo spettacolo è doverosamente rivolta all’eccezionale cast d’interpreti, scelti con un lavoro di casting mirabile e capace ognuno di dare uno spessore unico al proprio personaggio senza rubare spazio scenico agli altri. I lunghi minuti di applauso rivolti dal pubblico agli attori sono la tangibile manifestazione di una indovinatissima performance collettiva.