La recensione del documentario "Il mestiere di vivere", di Giovanna Gagliardo in concorso alla 42ª edizione del Torino Film Festival

Recensione a cura di Luigi Pizzi

Cosa ha significato Cesare Pavese per la letteratura italiana? Quanto è stato grande il suo contributo alla cultura del primo Novecento e, soprattutto, quanto ancora lo sarebbe potuto essere se non si fosse suicidato, nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950, ad appena 42 anni con uno straziante "ci vuole umiltà, non orgoglio"? Quante infinite ramificazioni di pensiero e di altissima sensibilità abbiamo perso a causa di un dolore così stordente da costringerlo alla resa più annichilente che esista? Sono solo alcune delle domande che esplodono nel cervello durante la visione del documentario "Il mestiere di vivere", di Giovanna Gagliardo in concorso alla 42ª edizione del Torino Film Festival. Produzione Luce Cinecittà, il lungometraggio è stato realizzato inoltre con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e con la partecipazione di Ente Turismo Langhe Monferrato Roero (con l'inevitabile tassa spettatoriale di doversi sorbire tante riprese a volo d'uccello sulle colline infiammate dal tramonto) e il Patrocinio della Città di Torino. 


Gagliano intitola significativamente il suo lavoro come lo zibaldone di appunti che lo scrittore piemontese annotò negli anni 1935-1950 in forma diaristica e che poi, dopo la sua morte, ha avuto una fortunata pubblicazione. Il mestiere di vivere prende coraggiosamente avvio proprio dalla fine terrena di Pavese, chiarendo che non sarà quello il focus di questo lavoro. Come dice giustamente la regista: "Su 90 minuti di montaggio solo 4 sono dedicati al giorno del suo suicidio". Il bianco e nero di una Torino che faticosamente usciva dalle brume del secondo dopoguerra rivela una città deserta - siamo ad Agosto - in cui Pavese si aggira cercando amici che non trova, facendo telefonate senza risposte, provando a redigere scritture private e pubbliche. Ma è solo un prologo, una specie di falso richiamo che invece di accanirsi sui motivi del gesto - e che in fondo qualunque lettore di Pavese sa senza saperlo - si apre subito verso la ricca vita dell'autore de “La luna e i falò”. Ci richiamiamo ancora una volta alle parole della regista: "Il mestiere di vivere Pavese forse non l'ha mai sperimentato fino in fondo perché ha sperimentato tanti mestieri: Il mestiere di scrittore, Il mestiere di poeta, il mestiere di traduttore, il mestiere di editore. Questo documentario vorrebbe restituire la vitalità spesso negata di un intellettuale che nella sua breve vita è riuscito a ricreare un nuovo mondo letterario e culturale e ha dato identità a un secolo". La struttura a capitoli del lungometraggio analizza infatti le diverse "professioni" che Cesare Pavese ha intrapreso in un percorso di vita atipico ma fecondissimo. Nel segmento che racconta del suo lavoro alla casa editrice Einaudi ecco che attraverso i video della Fondazione Cesare Pavese recuperiamo allora le preziose testimonianze di Walter Barberis, Renata Einaudi, Natalia Ginzburg, Franco Ferrarotti e tanti altri intellettuali che danno contezza del suo fondamentale contributo sia in termini creativi che pratici (lo sviluppo della famosa collana viola seguito fino in tipografia). 


Se in questo spezzone e in quello che racconta della sua preziosa esperienza da traduttore, fondamentale perché fu il primo e il più deciso italianista a far conoscere al nostro retrivo pubblico giganti della letteratura statunitense come Herman Melville, Sinclair Lewis e John Steinbeck, Gagliano fa un buon lavoro divulgativo purtroppo questo stesso approccio è fortemente limitativo in altre parti. Andare al Liceo D’Azeglio e mostrare i voti in pagella di Pavese o il museo di Santo Stefano Belbo mostra il pernicioso orizzonte scolastico della vegliarda regista rendendo questa biografia per immagini simile a una vetusta ricerca su enciclopedie cartacee. Non è con la presenza della giovane scrittrice Claudia Durastanti che si può risollevare una ricerca d’archivio che seleziona quasi sempre dati arcinoti e che si appoggia troppo al voice-over di Emanuele Puppio, deleterio nella scelta di un timbro e un’impostazione così ampollosi da rendere anche i vibranti estratti delle opere di Pavese declamazioni esangui. Non basta scegliere di non fare gli odiati “pettegolezzi” sugli amori sbagliati e gli errori umani – la presunta apoliticità dei suoi scritti viene saggiamente liquidata ricordando le preziosi idiosincrasie caratteriali dell’autore che si rammaricava che “Gramsci non avrebbe chiesto” la cancellazione del confino fascista – di Pavese per trasmettere in maniera originale e feconda l’eredità di un uomo che non ha mai imparato il mestiere di vivere ma ha saputo insegnarlo alle future generazioni da morto.

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