La recensione di "Una scomoda circostanza", di Darren Aronofsky nelle sale dal 27 agosto distribuito da Eagle Pictures

Recensione a cura di Mario Turco

A che punto siamo della carriera di Darren Aronofsky? Il regista statunitense è stato un autore che sin dal folgorante debutto nel 1998 di “π - Il teorema del delirio” e la clamorosa conferma, appena due anni dopo, di “Requiem for a dream” prometteva di monopolizzare critica e festival per le decadi successive. Anche il suo fan più sfegatato è però costretto ad ammettere che poche di quelle aspettative si sono tramutate in realtà dato che soltanto quelle due pellicole iniziali, insieme forse a “The wrestler”, sono davvero rimaste di culto per i cinefili di tutte le latitudini. Dopo una filmografia così discontinua da alienargli perfino le simpatie del pubblico anche nei suoi esiti più riusciti - perfino l'ultimo “The Whale” ha polarizzato nuovamente la ricezione tra tifosi e denigratori - ecco che arriva "Una scomoda circostanza", di Darren Aronofsky nelle sale italiane dal 27 agosto distribuito da Eagle Pictures a (non) sciogliere la riserva: la grande storia della settima arte non si gioca più nel campo filmico dell'autore newyorchese ma in esso rimane un grande spazio vitale per il cinema. 


Tratto dal romanzo del 2004 “A tuo rischio e pericolo” di Charlie Huston, qui in veste anche di sceneggiatore, il film è ambientato nella New York del 1998. Hank (un Austin Butler sempre in limine tra bellezza angelica e recitazione tutta in sottrazione alla Brando) è un ragazzo che fa il barista e che vive felicemente una storia di passione sessuale e intesa sentimentale con la splendida paramedico Yvonne (una perfetta Zoë Kravitz che però forse avrebbe bisogno di uscire da questo tipo di ruoli). Hank però ha un lato oscuro che fa di lui una falena attratta dai guai: promessa del baseball la cui carriera è stata stroncata da un tragico infortunio, a distanza di anni continua a berci su ma, soprattutto, tende a fidarsi troppo dei tipi loschi che abitano vicino lui. Così quando Russ (un Matt Smith che prova a dare ancor più “locura” al punk con la cresta che interpreta) gli chiede di badare al suo gatto e all'appartamento per qualche giorno, Hank finisce dentro un gigantesco vortice di guai, ostaggio di un regolamento di conti tra due gruppi di gangster in guerra tra loro...  Una scomoda circostanza è uno stranissimo oggetto filmico non tanto per la sua esibita cifra weird quanto per l'amalgama che ingredienti puramente di genere prendono sotto la regia altrove austera e spesso severa di Aronofsky. Dopo un inizio carico a pallettoni, per usare un gergo appartenente alla stessa temperie dell'epoca cui il film si confà, e che omaggia platealmente i codici della commedia nera metropolitana, Aronofsky rallenta in maniera brusca prendendosi il tempo di delineare in maniera tragica la figura del protagonista. Pur pestato a sangue in modo brutale, il ragazzo reagisce con fare sornione anche all'asportazione del rene (e alla successiva riapertura della cicatrice, in una scena che conferma il fascino del regista per le suture del corpo) perché l’unico trauma in grado di farlo soffrire è, a distanza di dieci anni, il forzato abbandono dello sport tanto amato. 


In Una scomoda circostanza il regista statunitense quindi riesce a portare su schermo il modello più esemplare del suo perdente in cerca di redenzione, e lo fa finalmente libero da parabole bibliche (“Noah”), mistiche (“The fountain”) o emotivamente ricattatorie (“The whale” e “The wrestler”). Hank è infatti condannato a restare prigioniero dei suoi sbagli fino a quando l’assurdo turbine criminale in cui è coinvolto non gli farà comprendere che il suo fallimento è poca cosa rispetto alla morte che quell’incidente automobilistico ha comportato per chi gli stava vicino e che lui in maniera così egoista ha rimosso. L’approccio moralista di Aronofsky è difatti al servizio di una storia che comincia con un escapismo alieno al suo cinema ma che minuto dopo minuto rivela, senza le antiche pesantezze di metodo, la complessità e l'irrimediabilità di un universo marcio fino al midollo. Straordinario in questo senso è il sopraffino rilancio che la scenografia di una New York lordata dall’immondizia in tutte le sue strade e imbruttita da scritte e deiezioni fa delle vomitevoli imprese dei suoi protagonisti. La nostalgia della colonna sonora degli Idles – probabilmente la componente più manieristica del lungometraggio ma stilisticamente davvero trascinante - pervade di un ulteriore senso di sconfitta la discesa negli inferi urbani di Hank. Perché per riuscire a scappare col malloppo in una spiaggia esotica devi, letteralmente, ammazzare tutti i tuoi demoni e tutti i tuoi angeli.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...