La recensione del film "The Eichmann Show", al cinema solo il 25-26-27 gennaio

Recensione a cura di Eleonora Cocola

Il 15 aprile 1961 è una data importante per la storia della Shoah: a Gerusalemme ha inizio il processo contro il funzionario tedesco Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS che col suo talento per le questioni logistiche, unito a un feroce antisemitismo, fu uno dei personaggi chiave per l’attuazione operativa della cosiddetta soluzione finale. Fu infatti responsabile del trasferimento di migliaia di ebrei nei campi di sterminio, organizzandone gli spostamenti ferroviari – ma non solo, nel novembre del 1944 ordinò, ad esempio, la “marcia della morte” per 20.000 ebrei da Budapest al confine con l’Austria. Il suo processo, che venne trasmesso sul piccolo schermo in 37 Paesi, ebbe un ruolo fondamentale per la presa di coscienza a livello internazionale degli stermini che ebbero
luogo negli anni del nazismo. L’80% della popolazione tedesca guardò il programma per almeno un’ora alla settimana, e per la prima volta, attraverso le testimonianze di centinaia di sopravvissuti, si parlò pubblicamente degli orrori dell’Olocausto. Niente di meglio quindi, per celebrare il Giorno della Memoria, di un film che racconta l’enorme lavoro di chi si occupò di realizzare e diffondere le riprese del processo. I protagonisti di The Eichmann Show, nelle sale dal 25 al 27 gennaio, sono il produttore Milton Fruchtman (interpretato da Martin Freeman) e il regista Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia), che ogni sera montavano velocemente le riprese della giornata in modo che potessero essere trasmesse in televisione.

Di film che raccontano le violenze contro gli ebrei ce ne sono numerosi, taluni splendidi e indimenticabili, e non c’era bisogno di un’altra pellicola che facesse la stessa cosa. Questo film-documentario su quello che fu considerato il processo del secolo è molto riuscito, capace di raccontare la storia della shoah in maniera originale, tenendo al centro il tema della natura del male e quello della memoria – sono alcuni dei personaggi secondari a sottolineare il ruolo dell’operazione di messa in onda del processo, che portò alla luce una verità in parte nascosta e a cui molti, anche in Israele, non credevano. The Eichmann Show si concentra molto sulle difficoltà pratiche che Fruchtman e Hurwitz incontrarono per la realizzazione delle riprese – inizialmente osteggiate dai giudici, poi realizzate con un sistema complesso di telecamere nascoste: dai tempi strettissimi per il montaggio alle minacce di morte subite dal produttore. Come tutti i film che parlano di film, l’occasione è buona anche per una riflessione sul ruolo del cinema e della televisione come mezzi di diffusione della conoscenza e sulle dinamiche che intercorrono tra i diversi ruoli nella realizzazione di una pellicola: qui la contrapposizione è tra il produttore Fruchtman che, preoccupato degli ascolti, vorrebbe catturare l’attenzione del pubblico giocando sulle emozioni suscitate dai racconti dei testimoni, e il regista Hurwitz, per il quale la telecamera è il filtro attraverso cui cercare nel mostro seduto al banco degli imputati una scintilla di umanità. Non si pensi però a una divisione manichea tra il produttore in cerca di gloria e il regista duro e puro, di entrambi i personaggi è restituita in pieno il complesso mix di personalità, idee e preoccupazioni terrene.

Oltre che estremamente interessante, il film è nel complesso molto godibile: il suo miglior pregio è sicuramente l’equilibrio tra le diverse tematiche trattate, ottenuto alternando alla finzione la realtà scioccante dei filmati originali del processo, e smorzando l’inevitabile tensione con piccoli momenti di leggerezza in grado di far tirare il fiato allo spettatore. I racconti dei testimoni, che ovviamente sono i momenti più toccanti e impressionanti (e in questo caso la scelta è stata di proporre sempre i filmati originali) sono vissuti attraverso gli occhi del team che sta in sala regia, che talvolta regge a fatica l’impatto delle storie dei sopravvissuti. Tuttavia ciò che più fa riflettere è l’indagine di Hurwitz che scruta il volto dell’imputato chiedendosi cos’è che ha trasformato quest’uomo comune in una persona capace di mandare centinaia di migliaia di bambini alla morte, poi tornare a casa tutte le sere e dare un bacio della buonanotte ai suoi figli. La sua ricerca di un segno di pentimento o anche solo di angoscia nel volto di Eichmann è vana, l’imputato resta impassibile e Hurwitz è costretto a constatare la totale indifferenza del male di fronte a se stesso – o, come la chiamò Hannah Arendt, la banalità del male.

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