“IL NATALE IN MANICOMIO” di Patrizia Vezzaro
Mi chiamo Emma. Tutti gli anni alla Vigilia di Natale papà portava me, mia mamma Lisa, mia sorella Anna e mio fratello Antonio a fare gli auguri ai suoi pazienti. Festeggiavamo il Natale in manicomio, un ospedale specializzato per la cura dei disturbi mentali, nell’epoca in cui i folli erano tutti coloro che venivano ritenuti una minaccia per la società, da allontanare il più velocemente possibile, uomini e donne, ragazzini a volte, con malattie mentali, persone pericolose più per se stessi, ma anche poveri, senza famiglia e privi di sussistenza, tanta umanità tormentata.
Mio padre aveva preso seriamente in considerazione il Vangelo: “Dio si è fatto uomo per insegnarci l’amore” e noi a Natale facevamo ogni anno del nostro meglio, per portare amore a chi non ne aveva, agli ultimi.
Ogni famiglia del personale dell’Istituto portava un pacco regalo, cose per lo più fatte in casa con i ferri da lana, maglioni con le renne, sciarpe con i folletti, calzettoni e confezioni fatte a mano con la stoffa, con dentro biscotti preparati dalle mamme con le figlie. Non erano dei biscotti semplici ma fatti con pazienza, volevamo fossero belli e buoni. La pasta veniva lavorata con le mani, facevamo stelle e angioletti con sopra lo zucchero al velo, quello finissimo, alberelli colorati con la menta, le renne ricoperte con la glassa di vaniglia, le decorazioni per dare colore le facevamo con i canditi, le mandorle, i pezzettini di zucchero colorati.
Era mia abitudine, ogni volta che preparavo un dolce, pensare a chi lo avrebbe poi mangiato e a Natale ci mettevo tanta cura, come questa potesse arrivare a loro, come se mettendo in bocca il biscotto potessero sentire il calore del forno, la passione delle nostre mani, la condivisione.
Chi poteva arrivava prima della festa per addobbare il grande abete e preparare i pacchi regalo. Le suore, che prestavano servizio al manicomio, ci indicavano i nomi da scrivere sul bigliettino appiccicato ad ogni regalo, un altro gesto di cura verso di loro che poi sarebbero stati chiamati per nome al microfono. Erano tanti i regali, più di uno per ognuno di loro, la gioa di quel momento e di ogni momento in cui avrebbero indossato uno di quegli indumenti personalizzati, doveva durare un anno intero, non ce ne sarebbero stati altri.
Le suore, aiutate dalle mamme, preparavano la cioccolata calda per tutti. Gli uomini con i figli maschi portavano da ogni stanza le sedie, e le mettevano allineate nel salone della festa, a forma di ferro di cavallo.
Antonio andò a prendere delle sedie, al piano di sopra, scese con il dolore dipinto in faccia. Lo vidi arrivare con una sedia portata bassa che non nascondeva il viso, con le braccia tese la portava troppo bassa, sembrava gli stesse per scivolare, mi guardava con gli occhi sbarrati. Aveva visto qualcosa che l’aveva turbato, pensai. Venne da me, gli dissi di sedersi, mi disse di promettermi che non sarei mai salita al piano di sopra.
“Me lo devi giurare Emma!” Diceva.
“Io te lo giuro Antonio, non ci andrò.”
Lo consolai, abbracciandolo forte, non volle dirmi cosa aveva visto e quando gli giurai che non sarei salita, già pensavo che invece prima o poi in serata, l’avrei fatto.
L’orchestra aveva iniziato a suonare le melodie del Natale. C’era un uomo al pianoforte, una ragazza con il violino, un ragazzo con un tamburello e una donna che cantava. Sembravano una famiglia e probabilmente lo erano.
Prendemmo posto sparsi tra, gli ospiti, venivano chiamati così i pazienti del manicomio, ma quella sera eravamo noi gli ospiti, a casa loro.
Aspettai tutta la sera il momento giusto per salire al piano sopra, consapevole che Antonio mi stava controllando, come fa uno sbirro con il detenuto. Arrivò il momento della cioccolata calda, i biscotti facevano la loro bella figura, tutti sparsi sul tavolo, davano macchie di colore alla grande tovaglia bianca ricamata, anche quella confezionata appositamente per le feste di Natale. Antonio stava cercando di superare la fila per la cioccolata e io ne approfittai per uscire dalla stanza, salii le scale con il cuore che pulsava tanto da percepirlo in gola, respiravo a fatica, avevo tanta paura. Dalle scale si arrivava ad un corridoio con porte a destra e a sinistra. C’era troppo silenzio, possibile che stessero dormendo con il baccano che saliva da sotto?
Aprii la porta e vidi una serie di letti a destra e a sinistra della stanza, filtrava solo la luce del corridoio, dalla porta che tenevo spalancata, i letti erano tutti occupati da persone inermi nel vero senso letterale della parola, senza possibilità di difesa. Dormono, pensai, altrimenti si muoverebbero. Mi avvicinai al primo letto a sinistra, era il più illuminato, l’altro era messo in ombra dalla porta aperta. Non si muovevano le coperte, non si sentiva rumore di respiro, dorme pensai, mi avvicinai con il viso all’altezza del guanciale e vidi due occhi spalancati. Non dormiva! Era sveglio, lucido mentalmente non saprei quanto, ma sveglio, immobile, con i polsi contenuti da due larghe cinture, sembravano cinture per i pantaloni ma di stoffa ed erano legate alla rete del letto. Sentii il gelo nel mio corpo, i miei polmoni non riuscivano ad espandersi del tutto per far entrare l’ara che mi era necessaria. Sangue che circolava ne avevo a sufficienza, pensai, per muovermi di lì, indietreggiare, chiudere la porta, correre giù dalle scale. Entrai nel salone e incontrai lo sguardo di Antonio, la pelle del suo volto era tornata bianca come il lenzuolo al piano di sopra.
Mi sentivo in colpa ogni Natale perché non mi piaceva entrare in quella casa e vedere comportamenti strani, alcuni ci abbracciavano e avevano la bava che usciva dalla bocca, altri ci facevano ballare saltando e ridendo e mettevano in mostra sorrisi sdentati, ma non avevo ancora visto niente, fino a quella sera. Al piano di sopra stavano quelli più ammalati, che non potevano scendere giù a far festa. Io e mio fratello eravamo saliti, una volta, avevamo deciso di non rifarlo, perché i nostri occhi avevano visto abbastanza.
Finita la festa andavamo ad ascoltare la Santa Messa di Natale, nella chiesetta vicina all’istituto e poi a casa aprivamo i nostri regali.
Prima di dormire recitavo una preghiera per quelle persone e auguravo loro un sereno Natale.
Mi chiamo Emma. Tutti gli anni alla Vigilia di Natale papà portava me, mia mamma Lisa, mia sorella Anna e mio fratello Antonio a fare gli auguri ai suoi pazienti. Festeggiavamo il Natale in manicomio, un ospedale specializzato per la cura dei disturbi mentali, nell’epoca in cui i folli erano tutti coloro che venivano ritenuti una minaccia per la società, da allontanare il più velocemente possibile, uomini e donne, ragazzini a volte, con malattie mentali, persone pericolose più per se stessi, ma anche poveri, senza famiglia e privi di sussistenza, tanta umanità tormentata.
Mio padre aveva preso seriamente in considerazione il Vangelo: “Dio si è fatto uomo per insegnarci l’amore” e noi a Natale facevamo ogni anno del nostro meglio, per portare amore a chi non ne aveva, agli ultimi.
Ogni famiglia del personale dell’Istituto portava un pacco regalo, cose per lo più fatte in casa con i ferri da lana, maglioni con le renne, sciarpe con i folletti, calzettoni e confezioni fatte a mano con la stoffa, con dentro biscotti preparati dalle mamme con le figlie. Non erano dei biscotti semplici ma fatti con pazienza, volevamo fossero belli e buoni. La pasta veniva lavorata con le mani, facevamo stelle e angioletti con sopra lo zucchero al velo, quello finissimo, alberelli colorati con la menta, le renne ricoperte con la glassa di vaniglia, le decorazioni per dare colore le facevamo con i canditi, le mandorle, i pezzettini di zucchero colorati.
Era mia abitudine, ogni volta che preparavo un dolce, pensare a chi lo avrebbe poi mangiato e a Natale ci mettevo tanta cura, come questa potesse arrivare a loro, come se mettendo in bocca il biscotto potessero sentire il calore del forno, la passione delle nostre mani, la condivisione.
Chi poteva arrivava prima della festa per addobbare il grande abete e preparare i pacchi regalo. Le suore, che prestavano servizio al manicomio, ci indicavano i nomi da scrivere sul bigliettino appiccicato ad ogni regalo, un altro gesto di cura verso di loro che poi sarebbero stati chiamati per nome al microfono. Erano tanti i regali, più di uno per ognuno di loro, la gioa di quel momento e di ogni momento in cui avrebbero indossato uno di quegli indumenti personalizzati, doveva durare un anno intero, non ce ne sarebbero stati altri.
Le suore, aiutate dalle mamme, preparavano la cioccolata calda per tutti. Gli uomini con i figli maschi portavano da ogni stanza le sedie, e le mettevano allineate nel salone della festa, a forma di ferro di cavallo.
Antonio andò a prendere delle sedie, al piano di sopra, scese con il dolore dipinto in faccia. Lo vidi arrivare con una sedia portata bassa che non nascondeva il viso, con le braccia tese la portava troppo bassa, sembrava gli stesse per scivolare, mi guardava con gli occhi sbarrati. Aveva visto qualcosa che l’aveva turbato, pensai. Venne da me, gli dissi di sedersi, mi disse di promettermi che non sarei mai salita al piano di sopra.
“Me lo devi giurare Emma!” Diceva.
“Io te lo giuro Antonio, non ci andrò.”
Lo consolai, abbracciandolo forte, non volle dirmi cosa aveva visto e quando gli giurai che non sarei salita, già pensavo che invece prima o poi in serata, l’avrei fatto.
L’orchestra aveva iniziato a suonare le melodie del Natale. C’era un uomo al pianoforte, una ragazza con il violino, un ragazzo con un tamburello e una donna che cantava. Sembravano una famiglia e probabilmente lo erano.
Prendemmo posto sparsi tra, gli ospiti, venivano chiamati così i pazienti del manicomio, ma quella sera eravamo noi gli ospiti, a casa loro.
Aspettai tutta la sera il momento giusto per salire al piano sopra, consapevole che Antonio mi stava controllando, come fa uno sbirro con il detenuto. Arrivò il momento della cioccolata calda, i biscotti facevano la loro bella figura, tutti sparsi sul tavolo, davano macchie di colore alla grande tovaglia bianca ricamata, anche quella confezionata appositamente per le feste di Natale. Antonio stava cercando di superare la fila per la cioccolata e io ne approfittai per uscire dalla stanza, salii le scale con il cuore che pulsava tanto da percepirlo in gola, respiravo a fatica, avevo tanta paura. Dalle scale si arrivava ad un corridoio con porte a destra e a sinistra. C’era troppo silenzio, possibile che stessero dormendo con il baccano che saliva da sotto?
Aprii la porta e vidi una serie di letti a destra e a sinistra della stanza, filtrava solo la luce del corridoio, dalla porta che tenevo spalancata, i letti erano tutti occupati da persone inermi nel vero senso letterale della parola, senza possibilità di difesa. Dormono, pensai, altrimenti si muoverebbero. Mi avvicinai al primo letto a sinistra, era il più illuminato, l’altro era messo in ombra dalla porta aperta. Non si muovevano le coperte, non si sentiva rumore di respiro, dorme pensai, mi avvicinai con il viso all’altezza del guanciale e vidi due occhi spalancati. Non dormiva! Era sveglio, lucido mentalmente non saprei quanto, ma sveglio, immobile, con i polsi contenuti da due larghe cinture, sembravano cinture per i pantaloni ma di stoffa ed erano legate alla rete del letto. Sentii il gelo nel mio corpo, i miei polmoni non riuscivano ad espandersi del tutto per far entrare l’ara che mi era necessaria. Sangue che circolava ne avevo a sufficienza, pensai, per muovermi di lì, indietreggiare, chiudere la porta, correre giù dalle scale. Entrai nel salone e incontrai lo sguardo di Antonio, la pelle del suo volto era tornata bianca come il lenzuolo al piano di sopra.
Mi sentivo in colpa ogni Natale perché non mi piaceva entrare in quella casa e vedere comportamenti strani, alcuni ci abbracciavano e avevano la bava che usciva dalla bocca, altri ci facevano ballare saltando e ridendo e mettevano in mostra sorrisi sdentati, ma non avevo ancora visto niente, fino a quella sera. Al piano di sopra stavano quelli più ammalati, che non potevano scendere giù a far festa. Io e mio fratello eravamo saliti, una volta, avevamo deciso di non rifarlo, perché i nostri occhi avevano visto abbastanza.
Finita la festa andavamo ad ascoltare la Santa Messa di Natale, nella chiesetta vicina all’istituto e poi a casa aprivamo i nostri regali.
Prima di dormire recitavo una preghiera per quelle persone e auguravo loro un sereno Natale.