Concorso letterario "Racconti di Natale": "Un freddo Natale", di Gianluca Conti Borbone

"UN FREDDO NATALE" di Gianluca Conti Borbone

Farà freddo, stanotte. E’ già freddo adesso, e sono passate da poco le venti. Le strade sono riccamente decorate di luci. Del resto è la vigilia di Natale. Un giorno qualsiasi, per me. Non per gli altri. Pochi lungo le strade, tutti di corsa per rientrare nelle loro case a festeggiare. Nessuno mi degna di uno sguardo, o di lasciarmi un tozzo di pane, o qualche spicciolo. In un cestino ho trovato mezzo panino abbandonato, è stata la mia cena. L’ho innaffiato con dell’ottima birra che un signore mi ha lasciato; ne aveva bevuta mezza bottiglia, mi ha donato il resto. E’ stato gentile. Sfrego le mani tra loro per riattivare la circolazione sanguigna. Ho la punta delle dita completamente intorpidita dal freddo. Tra un po’ mi stenderò sul mio giaciglio e mi addormenterò nella speranza che non venga svegliato come l’altra notte dal solito gruppo di teste rasate. Vengono spesso a trovarmi. Erano cinque o sei. Mi hanno detto che sono un negro di merda e che sto imbrattando il marciapiede della loro città con la mia negritudine. Così hanno detto. E giù calci, nonostante abbia evitato di guardarli negli occhi; l’ultima volta che l’ho fatto ho passato tre mesi in ospedale. Tutto sommato è stato un bene. Avevo un letto morbido, tre pasti caldi al dì (e quando mai ho mangiato così tanto in vita mia?) e qualcuno che si prendeva cura di me. Per dovere, intendiamoci, non per amore. Però… Non è stata neppure l’isteria della vicina di letto a disturbarmi, chè lei, con un negro in camera, non voleva starci; così è stata spostata in un’altra stanza. Ogni tanto la sentivo urlare che è un’indecenza dover pagare le tasse per campare gli extracomunitari. A tutto ciò sono abituato. Anche alle aggressioni lo sono, se è per questo. Quello, però, che mi riusciva più difficile da sopportare era il dolore intollerabile dovuto alle fratture ossee. Certo, mi avevano avvertito:

“Adesso ti diamo una bella ripassata, negro”.

Io non avevo fatto niente. Non faccio mai niente. Ho quattro coperte, sporche e lise, qualche cartone che uso per isolarmi dal gelido suolo, i guanti e un cappello di lana. Tutti i vestiti che ho li tengo addosso, perlomeno d’inverno. Ogni tanto mi alzo e vado alla ricerca di qualche residuo di cibo. Se qualcuno mi dà qualche soldo, ma è raro, acquisto un cheeseburger al Mcdonald’s. Non disturbo nessuno. Se li vedo per tempo, cerco di nascondermi dalle teste rasate, ma non sempre ci riesco. O dai poliziotti che, anche loro, ogni tanto qualche manganellata me la elargiscono ben volentieri. Soprattutto al calare delle tenebre.

E’ bello il Natale. Mi piace vedere la città inghirlandata a festa. La gente è felice, i bambini sono raggianti anche se, io lo vedo, quando mi passano davanti mi guardano con fare interrogativo. Non comprendono, rallentano il passo e si girano incuriositi. Il loro sguardo è pieno di compassione. Io gli sorrido, ma l’adulto accompagnatore li trascina via a forza, rimproverandoli aspramente.

E’ cominciato a nevicare, dischiudo la bocca al bianco cielo. Tanti fiocchi di neve finiscono lì dentro, sono davvero felice. Questa notte è meravigliosa. Ma farà freddo, tanto freddo. Ho trovato un posto riparato dove poter riposare. Domani mi sveglierò e sarò circondato di un bianco candore. E’ probabile, visto come sta nevicando. Babbo Natale non mi ha ancora portato nulla, chissà che, domattina, trovi vicino al mio giaciglio un bel dono. Sogni balordi di un clochard.

In Africa non nevica mai. Quando ho visto per la prima volta la neve ne ho avuto paura; poi ci ho fatto l’abitudine e me ne sono innamorato. Quando non trovo altro, mi nutro di essa.

E’ giunto il tempo di riposare le mie quattro ossa. Così faccio. Mi addormento fissando le luminarie, lasciandomi cullare dalle magiche canzoni del Natale che gli altoparlanti del centro continuano a suonare in loop. Un calcio sui reni mi sveglia nel cuore della notte, seguito da insulti di ogni tipo. Non è un felice risveglio. Non so che ore siano. Ha smesso di nevicare e intorno è tutto bianco. Mi giro dalla loro parte. Sono in cinque. Sono rasati e la faccia è cattiva. Commetto l’errore di guardare con maggiore intensità il più giovane. Non per sfida, rimango semplicemente colpito dalla giovane età di quel ragazzino. Può avere 15 anni, forse 16, ha gli occhi di ghiaccio e neppure sa perché mi stia colpendo con tanta violenza e che male possa avergli fatto per meritare una punizione tanto dura. E’ il più accanito del gruppo e ha gli anfibi ai piedi. Fanno male. Il mio sguardo lo offende. Forse ha paura del nero dei miei occhi. Quelli come lui non devono mai aver paura.

“Negro di merda”, dice colpendomi con un pugno sul naso. Sanguino copiosamente.

L’odore del sangue è terribile. Quando l’animale da preda sente l’odore del sangue, per la preda è finita, a meno che non abbia buone gambe. Io, quelle, non le ho mai avute.

Il bimbetto fa scattare la lama e l’affonda a più riprese sulle mie coperte. Colpisce a casaccio, ma il suo polso è fermo. Sento la lama affondare nel mio corpo. Ora è tutta dentro. E’ fredda. Il sangue comincia a colare copiosamente sul marciapiede.

“Fermati, oh! Che cazzo fai? Vuoi ammazzarlo?” sento che dice uno di loro, e lo tira via di peso.

“Tornatene da dove sei venuto, schifoso”, continua a sbraitare il bimbetto.

“”Ehi, deficiente”, lo apostrofa un terzo mentre lo prende a schiaffi per placare la sua ira. Ora tutti urlano. Le voci concitate del gruppo di ragazzi si accavallavano.

“Che cazzo fai? Andiamocene, prima che arrivi qualcuno”, dice un altro. E’ quella l’unica frase che riesco a percepire nitidamente.

Mentre il gruppo si allontana correndo, l’accoltellatore mi indirizza uno “sporco negro” di commiato. Il giovane si volta, lo sguardo è carico d’odio, ed incrocia il mio, che è sempre più appannato.

Chissà se quell’uomo che scese dal bus prossimo alla partenza per darmi 50 euro -“Ti possono servire?” “Si”, gli risposi, e gli sorrisi. Non seppi dirgli altro. Che scemo!- si ricorda ancora del mio viso. Chissà se saprà mai quel che mi è appena accaduto o se non lo saprà mai poiché i giornali liquideranno la notizia con un articolo striminzito.

“Sto morendo”, gli direi ora. Sento che la vita sta scivolando via sul marciapiede. La vedo, ha il colore del mio sangue. Avrei voluto… Non so cosa avrei voluto. Quando sono scappato dall’Africa speravo di arrivare in Italia, trovare un lavoro, metter su famiglia e avere tanti amici. Anche bianchi. I bianchi che sono in Italia, pensavo, sono di certo più buoni di quelli che sono in Nigeria. Forse mi sbagliavo. Cambiano gli attori, ma la recita pare sempre la stessa. Oggi l’epilogo. Forse dovrei gridare. Chiamare aiuto. Forse potrei ancora salvarmi. Perché dovrei? Di residui di cibo trovati qua e là nei cestini ne ho raccolti tanti; li lascio ad altri, ora.

Fa male, però. Mi sento sempre più debole.

Salvarmi per chi, poi? Tempo fa è morto uno come me, un clochard. Quando sono venuti a prenderlo per portarlo via, gli infermieri smoccolavano ferocemente.

“Sempre a noi toccano questi lavori di merda”, dicevano.

“Fosse per me, vi laverei col lanciafiamme”, sentii urlare da qualcun’altro. Fu un pugno nello stomaco.

Domattina bestemmieranno nuovamente quando mi trascineranno via, ma non li sentirò. Forse imprecheranno ancora di più quando dovranno lavar via il sangue. Credo che se la caveranno con qualche secchiata d’acqua. Certo è che rovinerò loro il giorno di Natale. Me ne dispiaccio. Beh, comunque, tutto questo non mi riguarda più. Sognavo di andarmene in età avanzata - invece di anni ne ho appena 35 - magari mentre raccontavo una favola ai miei nipotini. Sarebbe stato un bell’epilogo. Così non è andata. E forse è giusto così. O forse no. Ma non importa.

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