"LA MAGIA DEL MANDARINO" di Paola Sabato
Gli stivali erano zuppi di fango, correva verso la stazione con un affanno quasi ritmico. Un viale da percorrere, una strada slargata da attraversare coi polmoni stretti. Per arrivare infine dinanzi al tabellone illuminato, all'elenco di destinazioni, partenze, ritardi, sigle e numeri. Numeri sociali, sociali come tutte le convenzioni.
Era appena scappata a testa alta dalla maratona verso il futuro: un percorso universitario lungo anni, ricco di ripensamenti, abnegazioni e notti insonni. Per non parlare della clausola sulla distanza: l’aveva accettata in preda ad una galvanizzazione adolescenziale. Come volevano le convenzioni.
Il vento freddo della sera le ghiacciò la punta del suo naso, floridamente arrossata. Dottoressa in “Freddolosità facile”.
Perché esistono le convenzioni? Perché il tempo non ci dà la possibilità di tornare indietro? Quali saranno i postumi delle mie scelte? Dei futuri lanci dei miei dadi? Addio per ora, luci della grande città. Ritorno nella mia culla calda, nei tratti di strada che riconosco. Per un po’ non voglio più saperne di te. Grazie di tutto.
Così pensava, allentandosi la sciarpa turchese stretta intorno alle labbra, con quei peli infeltriti che si attaccavano fastidiosamente alla lingua. Con una smorfia prese la strada per il binario e notò che tutto aveva una luce diversa in quel periodo: le persone sembravano più buone, come ognuno conoscesse l’altro, i profumi lievemente più impazienti e le luci si attenuavano in un pulviscolo spennellato di una dolcezza sconosciuta alle altre festività. Lo speaker pregò i passeggeri di allontanarsi dalla linea gialla. Il treno arrivò frastornando l’aria nel suo intorno e spalancando le sue porte insufficientemente larghe se confrontate alla folla che con impazienza usciva, scendeva, trasferiva i bagagli da un lato all'altro. Era il momento di salire su quei gradini scivolosi, quel classico momento in cui il mondo si zittiva, non emetteva suoni, e l’unica cosa da fare era concentrarsi su quel semplice gesto: salire e seguire la rotta inversa.
Prese posto, sistemò indietro i capelli goffamente compressi dal cappello di lana. Si addormentò inaspettatamente e si svegliò quasi a metà strada. Il treno continuava a caricarsi e scaricarsi di persone. Lei osservava quella folla eterogenea, ricercando i dettagli che determinavano una parte di storia di ognuno di quei passeggeri. Nonni e nonne, madri e padri, colleghi e colleghe, buste, zaini, valigie piccole, valigie simili a frigoriferi, pacchetti regalo, studenti, lavoratori, famiglie intere, persone sole, persone in compagnia.
Ricordò che anche lei faceva parte di quell'esodo di ritorno verso casa. Il Natale aveva un grande potere: poteva medicare, anche se per poco, i malanni del cuore e della nostalgia.
Aprì lo zaino grigio da campeggio e prese dei mandarini. Ne aprì uno facendo perno con le unghie.
Una commozione si liberò nell'aria, un profumo di campagna, di casa. Sentì gli occhi scaldarsi.
Arancione come il filo dorato che la mamma intersecava sui rami del loro albero nel piccolo salotto. Ricordava quelle sfumature cangianti di stelle fasulle, la luce calda che si smorzava a confronto coi toni freddi delle palle natalizie. Si sentiva scalza, eppure non aveva freddo. Era come se quel filo, nella sua memoria, tornasse a pizzicarle l’arco plantare. Il babbo tornava da lavoro e rideva nel vedere l’albero finito in così poco tempo; lei si sentiva così fiera del suo lavoro. Quando tutto era così grande, e la gioia esplodeva su per il camino.
La buccia del mandarino era ruvida e le ricordava quando da piccina aiutava la zia a creare le decorazioni natalizie con spicchi di arancia essiccati. Quelle sensazioni erano mutevoli al tatto, sembravano sensazioni appena apprese. Ricordò che usava spiare dal centro dello spicchio rotondo tutto ciò che la circondava, così da filtrarlo in modo giocoso, come se stesse usando un caleidoscopio. C’era lo zio che incurante beveva dal rubinetto. Il peluche che le aveva regalato diventava stranamente arancione e lei rifuggiva lo sguardo, per conservarne il ricordo candido. Il Natale torna ogni anno, eppure è sempre diverso, diverse le sue persone: chi presente, chi assente.
Morse lo spicchio di mandarino: fu la nota più dolce. Il nonno li raccoglieva dalla sua campagna. Un 24 Dicembre di tantissimi anni fa tutta la famiglia si recò nella piccola tenuta per raccogliere gli agrumi. C’erano tutti, ma proprio tutti: grandi, piccini, anziani, zii, cugini.
Ma il mandarino le ricordava anche le tombolate serali e infinite, i cenoni ripetuti contro ogni logica della capacitanza intestinale, le scorte vitaminiche tra una letterina a Babbo Natale e un cartone animato. Le ricordava l’aroma che la nonna e le prozie immischiavano nell'impasto dei dolcetti. Lei era la guastafeste di turno che esigeva un posto in quella catena di montaggio indaffarata. Veniva collocata ad un angolo del tavolo, dove poteva star buona senza dar fastidio, limitandosi a ritagliare nella pasta forme di stelle, alberi, cuoricini.
Di tutto questo sapeva quel mandarino, sapori di una spensieratezza spontanea e infantile. E anche di mani che l’avevano stretta da piccola, abbracciandola e spiegandole che Babbo Natale porta i regali ai bambini buoni, e che la stella cometa rischiara quella magica notte splendendo su tutti. L’odore persistente e caratterizzante di quel periodo magico.
Il treno iniziò a rallentare, il cuore fece due salti.
Tuttavia non volle spintonare nell'uscita e attese che la folla si diradasse.
Lui l’aspettava con una busta in mano. Aveva gli occhiali appannati per via del freddo, e lo sguardo innamorato di chi aspetta con impazienza che le strade si ritrovino. La aiutò a trasferire il bagaglio a terra. Due comete che nello spazio si ritrovano sulla stessa traiettoria.
“Eccoti finalmente!”
Fu il calore di una vita intera.
“Ti ho portato una busta, pensavo che avessi fame dopo un viaggio simile”.
Lei aprì la busta un po’ stordita dalla stanchezza: dolcetti alle mandorle, dei tovagliolini e dei mandarini.
“Mi hai portato il Natale, grazie.”
Risero, incamminandosi verso l’uscita.
Era il momento dolce in cui si ricaricavano le speranze, in cui erigere una preghiera, in cui godere degli affetti e delle persone care. Nonostante gli anni passavano, tra incertezze lavorative ed esistenziali, quella era la consuetudine più bella per il suo cuore.
Rifletteva su quanto fosse dannatamente prepotente il Natale: arrivava ogni anno, con il solito vecchiume tirato fuori dagli scatoli, bello come una certezza estrema, con la zia appassionata che vestiva sempre di rosso al cenone, con l’abbraccio innocente di un bambino che trova i suoi regali sotto l’albero, con il profumo di cenere e di presepi.
Al di là di tutto questo, quella prepotenza appassionata colpisce il cuore infondo alle sue camere, in un punto fissato nell'anno zero dei nostri ricordi.
Gli stivali erano zuppi di fango, correva verso la stazione con un affanno quasi ritmico. Un viale da percorrere, una strada slargata da attraversare coi polmoni stretti. Per arrivare infine dinanzi al tabellone illuminato, all'elenco di destinazioni, partenze, ritardi, sigle e numeri. Numeri sociali, sociali come tutte le convenzioni.
Era appena scappata a testa alta dalla maratona verso il futuro: un percorso universitario lungo anni, ricco di ripensamenti, abnegazioni e notti insonni. Per non parlare della clausola sulla distanza: l’aveva accettata in preda ad una galvanizzazione adolescenziale. Come volevano le convenzioni.
Il vento freddo della sera le ghiacciò la punta del suo naso, floridamente arrossata. Dottoressa in “Freddolosità facile”.
Perché esistono le convenzioni? Perché il tempo non ci dà la possibilità di tornare indietro? Quali saranno i postumi delle mie scelte? Dei futuri lanci dei miei dadi? Addio per ora, luci della grande città. Ritorno nella mia culla calda, nei tratti di strada che riconosco. Per un po’ non voglio più saperne di te. Grazie di tutto.
Così pensava, allentandosi la sciarpa turchese stretta intorno alle labbra, con quei peli infeltriti che si attaccavano fastidiosamente alla lingua. Con una smorfia prese la strada per il binario e notò che tutto aveva una luce diversa in quel periodo: le persone sembravano più buone, come ognuno conoscesse l’altro, i profumi lievemente più impazienti e le luci si attenuavano in un pulviscolo spennellato di una dolcezza sconosciuta alle altre festività. Lo speaker pregò i passeggeri di allontanarsi dalla linea gialla. Il treno arrivò frastornando l’aria nel suo intorno e spalancando le sue porte insufficientemente larghe se confrontate alla folla che con impazienza usciva, scendeva, trasferiva i bagagli da un lato all'altro. Era il momento di salire su quei gradini scivolosi, quel classico momento in cui il mondo si zittiva, non emetteva suoni, e l’unica cosa da fare era concentrarsi su quel semplice gesto: salire e seguire la rotta inversa.
Prese posto, sistemò indietro i capelli goffamente compressi dal cappello di lana. Si addormentò inaspettatamente e si svegliò quasi a metà strada. Il treno continuava a caricarsi e scaricarsi di persone. Lei osservava quella folla eterogenea, ricercando i dettagli che determinavano una parte di storia di ognuno di quei passeggeri. Nonni e nonne, madri e padri, colleghi e colleghe, buste, zaini, valigie piccole, valigie simili a frigoriferi, pacchetti regalo, studenti, lavoratori, famiglie intere, persone sole, persone in compagnia.
Ricordò che anche lei faceva parte di quell'esodo di ritorno verso casa. Il Natale aveva un grande potere: poteva medicare, anche se per poco, i malanni del cuore e della nostalgia.
Aprì lo zaino grigio da campeggio e prese dei mandarini. Ne aprì uno facendo perno con le unghie.
Una commozione si liberò nell'aria, un profumo di campagna, di casa. Sentì gli occhi scaldarsi.
Arancione come il filo dorato che la mamma intersecava sui rami del loro albero nel piccolo salotto. Ricordava quelle sfumature cangianti di stelle fasulle, la luce calda che si smorzava a confronto coi toni freddi delle palle natalizie. Si sentiva scalza, eppure non aveva freddo. Era come se quel filo, nella sua memoria, tornasse a pizzicarle l’arco plantare. Il babbo tornava da lavoro e rideva nel vedere l’albero finito in così poco tempo; lei si sentiva così fiera del suo lavoro. Quando tutto era così grande, e la gioia esplodeva su per il camino.
La buccia del mandarino era ruvida e le ricordava quando da piccina aiutava la zia a creare le decorazioni natalizie con spicchi di arancia essiccati. Quelle sensazioni erano mutevoli al tatto, sembravano sensazioni appena apprese. Ricordò che usava spiare dal centro dello spicchio rotondo tutto ciò che la circondava, così da filtrarlo in modo giocoso, come se stesse usando un caleidoscopio. C’era lo zio che incurante beveva dal rubinetto. Il peluche che le aveva regalato diventava stranamente arancione e lei rifuggiva lo sguardo, per conservarne il ricordo candido. Il Natale torna ogni anno, eppure è sempre diverso, diverse le sue persone: chi presente, chi assente.
Morse lo spicchio di mandarino: fu la nota più dolce. Il nonno li raccoglieva dalla sua campagna. Un 24 Dicembre di tantissimi anni fa tutta la famiglia si recò nella piccola tenuta per raccogliere gli agrumi. C’erano tutti, ma proprio tutti: grandi, piccini, anziani, zii, cugini.
Ma il mandarino le ricordava anche le tombolate serali e infinite, i cenoni ripetuti contro ogni logica della capacitanza intestinale, le scorte vitaminiche tra una letterina a Babbo Natale e un cartone animato. Le ricordava l’aroma che la nonna e le prozie immischiavano nell'impasto dei dolcetti. Lei era la guastafeste di turno che esigeva un posto in quella catena di montaggio indaffarata. Veniva collocata ad un angolo del tavolo, dove poteva star buona senza dar fastidio, limitandosi a ritagliare nella pasta forme di stelle, alberi, cuoricini.
Di tutto questo sapeva quel mandarino, sapori di una spensieratezza spontanea e infantile. E anche di mani che l’avevano stretta da piccola, abbracciandola e spiegandole che Babbo Natale porta i regali ai bambini buoni, e che la stella cometa rischiara quella magica notte splendendo su tutti. L’odore persistente e caratterizzante di quel periodo magico.
Il treno iniziò a rallentare, il cuore fece due salti.
Tuttavia non volle spintonare nell'uscita e attese che la folla si diradasse.
Lui l’aspettava con una busta in mano. Aveva gli occhiali appannati per via del freddo, e lo sguardo innamorato di chi aspetta con impazienza che le strade si ritrovino. La aiutò a trasferire il bagaglio a terra. Due comete che nello spazio si ritrovano sulla stessa traiettoria.
“Eccoti finalmente!”
Fu il calore di una vita intera.
“Ti ho portato una busta, pensavo che avessi fame dopo un viaggio simile”.
Lei aprì la busta un po’ stordita dalla stanchezza: dolcetti alle mandorle, dei tovagliolini e dei mandarini.
“Mi hai portato il Natale, grazie.”
Risero, incamminandosi verso l’uscita.
Era il momento dolce in cui si ricaricavano le speranze, in cui erigere una preghiera, in cui godere degli affetti e delle persone care. Nonostante gli anni passavano, tra incertezze lavorative ed esistenziali, quella era la consuetudine più bella per il suo cuore.
Rifletteva su quanto fosse dannatamente prepotente il Natale: arrivava ogni anno, con il solito vecchiume tirato fuori dagli scatoli, bello come una certezza estrema, con la zia appassionata che vestiva sempre di rosso al cenone, con l’abbraccio innocente di un bambino che trova i suoi regali sotto l’albero, con il profumo di cenere e di presepi.
Al di là di tutto questo, quella prepotenza appassionata colpisce il cuore infondo alle sue camere, in un punto fissato nell'anno zero dei nostri ricordi.