"RITORNO A CASA" di Barbara Arioli
Quando quel mattino uscii di casa avevo uno strano sentore, come un’inquietudine.
E’quella strana sensazione che hai quando senti che sta per succedere qualcosa ma ancora non ne conosci l’esito finale.
Non ebbi, però, molto tempo per rifletterci sopra: avevo un figlio di dieci anni da gestire, un lavoro come insegnante, ero sempre attiva, anzi, no, iperattiva.
Una vita piena ma incompleta: avevo un altro figlio, per la verità.
Col mio primo marito mi sposai ragazzina e fu un grande amore, il mio attuale non me ne voglia.
Purtroppo durò poco: un terribile infarto me lo portò via a soli trent’anni.
Io, giovane vedova con figlio di cinque anni a carico, incassai il colpo, mi rimboccai le maniche, divenni professoressa di lettere di ruolo e Jacopo crebbe in salute ed intelligenza.
Era un bambino molto bello, con riccioli biondi e con due grandi occhi azzurri ed era anche molto bravo a scuola, aveva un animo artistico e creativo, me lo immaginavo da adulto scrittore o fotografo o compositore.
Alla conclusione delle scuole dell’obbligo volli conoscere i suoi professori in modo da avere un parere su quale istituto sarebbe stato il più adatto al mio ragazzo.
E fu proprio durante uno di questi colloqui che conobbi l’insegnante di musica e mi piacque da subito.
Iniziammo coi piedi di piombo: io vedova con figlio adolescente, lui mai stato sposato e senza prole.
Fortunatamente mio figlio aveva terminato con le sue lezioni, quindi non era più il suo professore, il che rendeva il tutto un po’ più semplice da gestire.
Quando decidemmo di parlargliene sembrò felice.
Ma qualche anno dopo Mario, questo il nome del professore, ed io decidemmo che era giunto il tempo per iniziare a convivere.
Jacopo sembrava sempre accettare tutto con naturalezza anche quando mi sposai e dopo poco rimasi incinta.
E’ impresso nella mia mente il momento in cui parlai a Jacopo del bambino.
Lui ascoltò con attenzione, non urlò né si disperò né esultò, non è nel suo carattere.
Semplicemente acconsentì con la testa, si alzò dalla sedia e se ne andò.
Pensai che avrebbe avuto bisogno di tempo per elaborare il tutto ma non sapevo che Jacopo aveva già un suo piano.
L’indomani entrando in camera sua per svegliarlo, trovai il suo letto perfettamente rifatto e le sue cose sparite dall’armadio.
Jacopo se ne era andato.
Non sto a raccontarvi tutto ciò che successe subito dopo, le denunce e le ricerche che si susseguirono, i contatti con le radio, i media localie nazionali, chiamammo persino un investigatore privato.
E non vi dico la gente: lo vedeva ovunque, ingrassato, dimagrito, vagabondo, persino sacerdote.
E noi a correre su e giù per l’Italia e un paio di volte anche in Francia e Spagna, dapprima speranzosi e poi sempre meno ottimisti.
Sono stati anni in cui, malgrado avessi avuto un altro figlio, Massimiliano, e fosse piccolo e da accudire, il mio primo pensiero la mattina appena alzata e l’ultimo prima di dormire era comunque per Jacopo e per il mio rimorso, quello di aver pensato solo a me stessa, di non aver considerato i suoi sentimenti, di non avergli mai chiesto la sua opinione.
E veniamo al giorno in questione.
Era un giorno di dicembre classico, con la neve che imbiancava i tetti, il freddo che pizzicava le gote e le luci del Natale imminente che rallegravano l’atmosfera della cittadina in cui da poco ci eravamo trasferiti finalmente decisi a lasciare quella casa sempre troppo piena di dolore.
A scuola andavamo a piedi, la comodità dei piccoli paesi, tutto è alla portata e tutto sembra più felice.
Lasciai Max alla sua aula della stessa scuola dove tutti e due noi genitori insegnavamo.
Frequentava la quinta elementare ed era un ragazzo sveglio più portato verso i numeri che le lettere, pensavo che forse sarebbe diventato economista o politico, e, a differenza del fratello, era un gran oratore, rappresentante di classe, estroverso e un po’ inquieto.
Io e Mario quel giorno avevamo lezione anche al pomeriggio quindi Max in questi casi tornava a casa da solo.
La prima cosa che vidi quando rincasando aprii la porta fu la sagoma di un enorme Babbo Natale.
Non di cartapesta, né di polistirolo, un gigantesco Babbo Natale vivo e vegeto che dormiva beato sul nostro divano.
Urlai.
Credo forte, ma non abbastanza per svegliare il Babbo Natale che sembrava letteralmente crollato.
Guardai mio figlio con severità ed aspettai in silenzio una spiegazione.
“Mamma non ti preoccupare è tutto ok, l’ho conosciuto a scuola, tranquilla”, bisbigliò, presumo per non svegliare il suo nuovo amico.
Tranquilla?
Da quando la scuola manda Babbi Natale a domicilio?
“Stamattina ne sono venuti tanti a scuola sai, abbiamo fatto una festa grande, con un sacco di dolciumi solo per noi, eh, non per i Babbi Natale...ahahah”.
Ok. C’era stata una festa a scuola, forse l’avrei anche dovuto sapere visto che ci lavoro pure io, ma io sono nell’ala dei “grandi” dove del Natale una gran parte gliene frega poco.
“Va bene, ho capito” dissi io “Ma perché ora lui è sul nostro divano?”.
“Mamma sai” continuò lui con una maturità che non gli avevo ancora visto “E’ giovane, in realtà eh, non è proprio il Babbo Natale quello vero…poi sembrava anche molto stanco e affamato, sai non poteva mangiare i dolci in classe perché le maestre gli hanno detto che non erano per loro, poi sembrava triste anche se tutti noi facevamo festa, quindi, quando siamo usciti gli ho detto se voleva venire a casa mia a dormire e mangiare un po’”
Panico.
Quindi nulla riguardava la scuola, era mio figlio il benefattore.
Non so cosa mi bloccò dallo svegliare subito l’uomo in rosso ma nel buio del salotto cercai di guardarlo meglio.
Sotto la barba si vedeva un viso che non poteva avere più di trent’anni, molto magro effettivamente sembrava bisognoso di aiuto, il mio bambino non sbagliava.
Così lo lasciai dormire e dormiva ancora anche quando rincasò Mario.
Naturalmente anche lui espresse le sue rimostranze e fece un’ulteriore ramanzina a Massimiliano e al comportamento estremamente pericoloso tenuto.
L’ospite dormì fino all’ora di cena, quando forse il profumino della mia pasta e fagioli lo svegliò.
Imbarazzato si alzò dal divano.
Ancora in penombra fece per andarsene portandosi verso la porta principale.
“Signori, scusate molto l’intrusione, vostro figlio è stato molto gentile, non sono solito approfittare così della gentilezza altrui, ma ero veramente affamato, non pagano molto a fare il Babbo Natale…ora tolgo il disturbo e scusate ancora”.
Al che io e mio marito ci guardammo, ci sembrava un bravo ragazzo.
“Senta, perché non resta a mangiare con noi?”.
Lui ci guardò veramente grato e sorrise.
“Beh, penso che accetterò”.
Fu allora che accendemmo tutte le luci e ci guardammo veramente per la prima volta.
Non avrei mai potuto confondere quegli occhi azzurri con quelli di nessun altro e anche lui non ebbe esitazioni.
“Mamma…”
“Jacopo…”
Non pronunciammo più alcuna parola ma ci abbracciammo fra gli sguardi sbigottiti degli altri due presenti che sembravano non capire. Quell’anno il regalo di Natale arrivò con Babbo Natale in persona e fu un regalo che mai, mai nessuna persona o situazione al mondo mi portò più via.
Quando quel mattino uscii di casa avevo uno strano sentore, come un’inquietudine.
E’quella strana sensazione che hai quando senti che sta per succedere qualcosa ma ancora non ne conosci l’esito finale.
Non ebbi, però, molto tempo per rifletterci sopra: avevo un figlio di dieci anni da gestire, un lavoro come insegnante, ero sempre attiva, anzi, no, iperattiva.
Una vita piena ma incompleta: avevo un altro figlio, per la verità.
Col mio primo marito mi sposai ragazzina e fu un grande amore, il mio attuale non me ne voglia.
Purtroppo durò poco: un terribile infarto me lo portò via a soli trent’anni.
Io, giovane vedova con figlio di cinque anni a carico, incassai il colpo, mi rimboccai le maniche, divenni professoressa di lettere di ruolo e Jacopo crebbe in salute ed intelligenza.
Era un bambino molto bello, con riccioli biondi e con due grandi occhi azzurri ed era anche molto bravo a scuola, aveva un animo artistico e creativo, me lo immaginavo da adulto scrittore o fotografo o compositore.
Alla conclusione delle scuole dell’obbligo volli conoscere i suoi professori in modo da avere un parere su quale istituto sarebbe stato il più adatto al mio ragazzo.
E fu proprio durante uno di questi colloqui che conobbi l’insegnante di musica e mi piacque da subito.
Iniziammo coi piedi di piombo: io vedova con figlio adolescente, lui mai stato sposato e senza prole.
Fortunatamente mio figlio aveva terminato con le sue lezioni, quindi non era più il suo professore, il che rendeva il tutto un po’ più semplice da gestire.
Quando decidemmo di parlargliene sembrò felice.
Ma qualche anno dopo Mario, questo il nome del professore, ed io decidemmo che era giunto il tempo per iniziare a convivere.
Jacopo sembrava sempre accettare tutto con naturalezza anche quando mi sposai e dopo poco rimasi incinta.
E’ impresso nella mia mente il momento in cui parlai a Jacopo del bambino.
Lui ascoltò con attenzione, non urlò né si disperò né esultò, non è nel suo carattere.
Semplicemente acconsentì con la testa, si alzò dalla sedia e se ne andò.
Pensai che avrebbe avuto bisogno di tempo per elaborare il tutto ma non sapevo che Jacopo aveva già un suo piano.
L’indomani entrando in camera sua per svegliarlo, trovai il suo letto perfettamente rifatto e le sue cose sparite dall’armadio.
Jacopo se ne era andato.
Non sto a raccontarvi tutto ciò che successe subito dopo, le denunce e le ricerche che si susseguirono, i contatti con le radio, i media localie nazionali, chiamammo persino un investigatore privato.
E non vi dico la gente: lo vedeva ovunque, ingrassato, dimagrito, vagabondo, persino sacerdote.
E noi a correre su e giù per l’Italia e un paio di volte anche in Francia e Spagna, dapprima speranzosi e poi sempre meno ottimisti.
Sono stati anni in cui, malgrado avessi avuto un altro figlio, Massimiliano, e fosse piccolo e da accudire, il mio primo pensiero la mattina appena alzata e l’ultimo prima di dormire era comunque per Jacopo e per il mio rimorso, quello di aver pensato solo a me stessa, di non aver considerato i suoi sentimenti, di non avergli mai chiesto la sua opinione.
E veniamo al giorno in questione.
Era un giorno di dicembre classico, con la neve che imbiancava i tetti, il freddo che pizzicava le gote e le luci del Natale imminente che rallegravano l’atmosfera della cittadina in cui da poco ci eravamo trasferiti finalmente decisi a lasciare quella casa sempre troppo piena di dolore.
A scuola andavamo a piedi, la comodità dei piccoli paesi, tutto è alla portata e tutto sembra più felice.
Lasciai Max alla sua aula della stessa scuola dove tutti e due noi genitori insegnavamo.
Frequentava la quinta elementare ed era un ragazzo sveglio più portato verso i numeri che le lettere, pensavo che forse sarebbe diventato economista o politico, e, a differenza del fratello, era un gran oratore, rappresentante di classe, estroverso e un po’ inquieto.
Io e Mario quel giorno avevamo lezione anche al pomeriggio quindi Max in questi casi tornava a casa da solo.
La prima cosa che vidi quando rincasando aprii la porta fu la sagoma di un enorme Babbo Natale.
Non di cartapesta, né di polistirolo, un gigantesco Babbo Natale vivo e vegeto che dormiva beato sul nostro divano.
Urlai.
Credo forte, ma non abbastanza per svegliare il Babbo Natale che sembrava letteralmente crollato.
Guardai mio figlio con severità ed aspettai in silenzio una spiegazione.
“Mamma non ti preoccupare è tutto ok, l’ho conosciuto a scuola, tranquilla”, bisbigliò, presumo per non svegliare il suo nuovo amico.
Tranquilla?
Da quando la scuola manda Babbi Natale a domicilio?
“Stamattina ne sono venuti tanti a scuola sai, abbiamo fatto una festa grande, con un sacco di dolciumi solo per noi, eh, non per i Babbi Natale...ahahah”.
Ok. C’era stata una festa a scuola, forse l’avrei anche dovuto sapere visto che ci lavoro pure io, ma io sono nell’ala dei “grandi” dove del Natale una gran parte gliene frega poco.
“Va bene, ho capito” dissi io “Ma perché ora lui è sul nostro divano?”.
“Mamma sai” continuò lui con una maturità che non gli avevo ancora visto “E’ giovane, in realtà eh, non è proprio il Babbo Natale quello vero…poi sembrava anche molto stanco e affamato, sai non poteva mangiare i dolci in classe perché le maestre gli hanno detto che non erano per loro, poi sembrava triste anche se tutti noi facevamo festa, quindi, quando siamo usciti gli ho detto se voleva venire a casa mia a dormire e mangiare un po’”
Panico.
Quindi nulla riguardava la scuola, era mio figlio il benefattore.
Non so cosa mi bloccò dallo svegliare subito l’uomo in rosso ma nel buio del salotto cercai di guardarlo meglio.
Sotto la barba si vedeva un viso che non poteva avere più di trent’anni, molto magro effettivamente sembrava bisognoso di aiuto, il mio bambino non sbagliava.
Così lo lasciai dormire e dormiva ancora anche quando rincasò Mario.
Naturalmente anche lui espresse le sue rimostranze e fece un’ulteriore ramanzina a Massimiliano e al comportamento estremamente pericoloso tenuto.
L’ospite dormì fino all’ora di cena, quando forse il profumino della mia pasta e fagioli lo svegliò.
Imbarazzato si alzò dal divano.
Ancora in penombra fece per andarsene portandosi verso la porta principale.
“Signori, scusate molto l’intrusione, vostro figlio è stato molto gentile, non sono solito approfittare così della gentilezza altrui, ma ero veramente affamato, non pagano molto a fare il Babbo Natale…ora tolgo il disturbo e scusate ancora”.
Al che io e mio marito ci guardammo, ci sembrava un bravo ragazzo.
“Senta, perché non resta a mangiare con noi?”.
Lui ci guardò veramente grato e sorrise.
“Beh, penso che accetterò”.
Fu allora che accendemmo tutte le luci e ci guardammo veramente per la prima volta.
Non avrei mai potuto confondere quegli occhi azzurri con quelli di nessun altro e anche lui non ebbe esitazioni.
“Mamma…”
“Jacopo…”
Non pronunciammo più alcuna parola ma ci abbracciammo fra gli sguardi sbigottiti degli altri due presenti che sembravano non capire. Quell’anno il regalo di Natale arrivò con Babbo Natale in persona e fu un regalo che mai, mai nessuna persona o situazione al mondo mi portò più via.