La recensione del film "Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità", di Julian Schnabel. Al cinema dal 3 gennaio

Recensione a cura di Mario Turco

Della genia dei nati postumi e cioè di quel ristretto gruppo di uomini e donne più grandi della loro epoca che dovettero in vita soccombere al loro stesso secolo, Vincent Van Gogh, per quanto riguarda il mondo dell’arte, è probabilmente l’esponente più famoso. Quasi completamente ignorato dai contemporanei ha lentamente recuperato dall’iniziale oblio sino al successo estremo degli ultimi anni che ha fatto sì che i suoi quadri fossero battuti nelle aste a cifre irragionevoli. Questa moderna fortuna critica rischia spesso di tracimare nella santificazione ex post e nella rilettura col senno moderno della sua vita. “Van Gogh-Sulla soglia dell’eternità”, di Julian Schnabel distribuito
nelle sale italiane da Lucky Red dal 3 gennaio 2019 è l’epitome della patina agiografica che sta avvolgendo le tele del celeberrimo pittore olandese. 

Partiamo proprio dal titolo scelto che omaggia l’omonimo quadro dipinto durante il periodo dell’internamento volontario (lo stridente ossimoro è voluto, NdA) nella casa di cura mentale situata a Saint-Rémy-de-Provence. Il titolo originale era un più didascalico “Vecchio che soffre” e raffigura proprio uno degli ospiti della struttura che si sorregge la testa in una posa che trasuda dolore. Il messaggio del dipinto, sia per il taglio della scena che per l’eccessiva vicinanza del soggetto rattrappito, è limpido nella sua cupezza. Il regista del film se ne serve invece come base per una rilettura personale del senso della pittura di Van Gogh e perfino dell’arte intera nella società. È lo stesso Julian Schnabel, nella duplice veste di autore e pittore al suo secondo film su un collega dopo quello sul più contemporaneo “Basquiat”, a dichiarare di volere che attraverso il film sgorgasse la sua visione sul tema. Soltanto che “Van Gogh-Sulle soglie dell’eternità” non ha il coraggio di perseguire fino in fondo il suo intento e auto-mutila le parti migliori per costringersi a restare dentro i confini del biopic. Checchè ne dica il vegliardo co-sceneggiatore Jean-Claude Carrere, collaboratore di lungo corso di Luis Bunuel, il film infatti non riesce a ricusare fino in fondo gli schemi più classici della biografia per immagini. Abbiamo tutti gli eventi insomma ma narrati per sommi capi, quasi con pigrizia e per debito esclusivamente commerciale, come se il pubblico dovesse ad ogni opera empatizzare con i problemi esistenziali di Van Gogh. 

Schnabel si ostina nel raccontare i fatti noti, dal rapporto con Gauguin al taglio dell’orecchio fino a quel proiettile nell’addome che l’uccise e che la storiografia più recente insinua non essere partito da lui. Solo che su questo versante non può competere con una filmografia corposa e che anche nell’esempio più recente, quel “Loving Vincent”, di Dorota Kobiela e Hugh Welchman che a differenza di questo dichiarava onestamente il suo pensiero sin dal titolo, rintraccia puntigliosamente le origini fattuali del malessere. Molto più interessante è invece la messa in scena di situazioni mai avvenute ma molto verosimili che indagano, senza fornire ovvie risposte, sulla personalità del geniale pittore olandese. Le continue passeggiate nel bosco, il rapporto con la vivandiera (che ha le fattezze di Emmanuelle Seigner), lo splendido spezzone con il dottor Gachet ritratto in un bellissimo dipinto e interpretato con la solita soave leggerezza da Mathieu Almaric, aprono la visione a interpretazioni volutamente mutevoli come l’animo del protagonista. Ed è un peccato che questa umiltà narrativa venga a scontrarsi per lo più con un lato estetico naturalmente predominante. Più volte si ha la sensazione che Schnabel dipinga sé stesso usando Van Gogh come modello. Usando una palette cromatica vicina a quella del pittore olandese egli fa gran sfoggio di filtri innaturali, totali su campi di grano giallissimi, morbide saturazioni cromatiche. Si ritorna quindi alla critica iniziale: non si biasimano queste soluzioni in quanto poco mimetiche ma proprio perché non s’incastrano bene col didascalismo del racconto. 

Van Gogh-Sulle soglie dell’eternità” avrebbe potuto anche soltanto raccontare l’eredità su un pittore neo-espressionista come Schnabel invece di voler portare a casa il compitino biografico. Il maggior risultato del film è non a caso l’interpretazione senza trucchi digitali o prostetici del 63enne Willem Dafoe nei panni del pittore morto a soli 37 anni che rappresenta, a partire dal dato certo, una delle possibili ramificazioni dell’esistenza che il genio olandese avrebbe potuto vivere. Una scelta di enorme impatto figurativo non raccolta pienamente e che lascia il film proprio sulla soglia dell’eternità impedendovi di accedere.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...