Recensione: Hollywoodland, di Michele Masiero e Roberto Baldazzini

Titolo: Hollywoodland
Autore: Michele Masiero, Roberto Baldazzini
Editore: Sergio Bonelli
Pagine: 288
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 22,00 €

Recensione a cura di Mario Turco

Parafrasando una nota canzone degli Afterhours si potrebbe scrivere che per i cinefili "non si esce vivi dagli anni 20". La famosa decade a cui ci riferiamo coincide ovviamente con l'inizio della Golden Age di Hollywood ma non solo: i twenties videro infatti anche le prime affermazioni cinematografiche di artisti europei, da Fritz Lang (poi esule proprio in suolo statunitense a causa dell’avvento del nazismo) a Erich von Stroheim. In generale essi hanno segnato l’immaginario pubblico grazie all’impatto visivo di un’arte che finalmente prendeva atto delle sue peculiarità e del divismo quasi olimpico dei suoi attori, correlato ad un inevitabile lato oscuro. 

Hollywoodland”, graphic novel scritta da Michele Masiero e illustrata da Roberto Baldazzini e pubblicata dalla Sergio Bonelli editore, concentra le proprie attenzioni narrative su quell’iconico periodo provando a raccontare una storia che sia esemplificativa delle sue imperiture malie e delle sue insanabili contraddizioni. Prima di diventare il simbolo della Mecca del cinema le lettere che formano la scritta Hollywoodland indicavano il complesso speculativo che sarebbe dovuto sorgere sulle famose colline di Los Angeles agli inizi del Novecento. Recuperandone l'originaria denominazione lo sceneggiatore Masiero approfitta dell'aneddoto storico per colorare sin dal titolo con una forte impronta di negatività il variegato mondo che vi girava attorno. La storia dei due fratelli protagonisti è in fondo un grimaldello usato per scardinare e guardare da dentro ciò che appare sugli schermi. Monty e Danny sono infatti, ognuno a proprio modo, piccoli ingranaggi di un meccanismo perverso che si nutre di gente come loro per dare ad altra gente come loro un sogno pieno di lustrini e paillettes. Danny si preoccupa di togliere possibili grane al danaroso signor Thompson attraverso l'uso della violenza bruta, Monty è invece un poliziotto modello, eroe di guerra e padre affettuoso che, si scoprirà nel corso del racconto, ha però sacrificato la sua onestà per arrivare a quei traguardi. 

Nonostante la convenzionalità del soggetto e la mancanza di sangue, “Hollywoodland” si caratterizza per una messa in scena spietata, soprattutto per le sorti avverse che toccano inevitabilmente ai comprimari di quel contesto. Ne è un esempio l'incipit che attraverso poche tavole racconta del suicidio di Peg Entwistle, che si gettò dalla lettera H dell'iconica scritta a soli 24 anni per gli insuccessi come attrice. Il cinema degli anni Venti aveva sì la forza dell'industria capitalista ma era già fragile come la celluloide. Celluloide, dati i tempi dell'ambientazione, che restituisce immagini e ricordi esclusivamente in bianco e nero. E qui ha gioco la componente più importante di “Hollywwodland”, la sua parte grafica. I disegni di Baldazzini tratteggiano i personaggi con segni essenziali, morbidi e si rifanno esplicitamente sia alla scuola francese della ligne claire, dai noi denominata linea morbida, sia alla classicità di quasi tutti i prodotti della Sergio Bonelli che solo di recente ha avviato alcuni coraggiosi restyling dei suoi marchi più famosi. La regia delle tavole è diretta con mano professionale e seppur voglia rendersi invisibile come quella dei maestri cinematografici di quegli anni non rinuncia a qualche sporadico orpello (i totali spettacolari, le riprese dall'alto, qualche scena di nudo). Ma ciò che più caratterizza la graphic novel è proprio il lavoro sul chiaroscuro di ogni inquadratura, fatto attraverso campiture di nero e bianco totali, privi di qualsiasi sfumatura. Le ombre danno colore perfino agli abiti dei personaggi, e ricordano oltre che le opere stilisticamente più marcate del nascente noir cinematografico alcuni lavori di Frank Miller (pur non giungendo volutamente a quel tipo di estremo chiaroscurale). Le 288 pagine (comprese alcuni bei lavori preparatori a matita prima dell'inserimento delle chine) di Hollywoodland raccontano insomma di come non vi sia in fondo crisi nel cinema moderno: è sempre la stessa dorata cacca.

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