La recensione in anteprima di "The elevator", il thriller di Massimo Coglitore al cinema dal 20 giugno

Recensione a cura di Mario Turco

Il genere, inteso da tanta critica come sottospecie minore dalle caratteristiche quasi lombrosiane (il sangue, ad esempio: se ne metti tanto sei considerato un autore minore; ma lo stesso discorso si può fare per violenza e nudo) ha prodotto negli ultimi anni i suoi figli reietti: i film di genere. Prodotti che nascono già preconfezionati, girati in lingua inglese per essere esportati nel mercato internazionale e che annullano le specificità locali degli autori amalgamandosi a un piatto immaginario wasp dettato dal cinema statunitense più commerciale. “The elevator”, di Massimo Coglitore e prodotto dalla Lupin Film di Riccardo Neri che esce nelle sale italiane dal 20 Giugno grazie
alla distribuzione di Europictures, è l'ennesimo tassello di questa politica che tocca in special modo le corde del thriller. La mercificazione dell'idea narrativa, riassumibile con l'insopportabile definizione (naturalmente anglofona) di storytelling è alla base di “The elevator”. 

Due soli personaggi, un'unica location e un segreto che divide/unisce carnefice e vittima: il sogno contemporaneamente di ogni autore e ogni produttore low-budget. Una versione indie del già micragnoso James Wan, per intenderci. Che andrebbe pure bene se non fosse che il film di Coglitore, qui alla sua prima regia cinematografica dopo corti premiati nei festival internazionali e fiction Rai, potrebbe essere girato da un ragazzo appena uscito dalla UCLA e nessuno si accorgerebbe della differenza. Il presentatore del quiz di “Who wants to be a millionaire?” che per motivi di diritti nel film si chiama invece “Three minutes” (anche qui: va bene la penuria di fondi ma costava tanto ideare uno straccio di quiz invece di copiarne perfino l'iconica domanda “L'accendiamo”?) Jack Tramell, interpretato da James Parks, viene rinchiuso all'interno dell'ascensore del lussuoso palazzo dove vive da una donna misteriosa. L'aguzzina, interpretata da Caroline Goodall, instaura subito un gioco perverso che prendendo a prestito la struttura del programma televisivo intende svelare il grave crimine di cui si è macchiato il viscido presentatore. “The elevator”, dopo le scene in esterno che presentano i personaggi, si svolge dunque tutto all'interno dell'ascensore e nelle sue intenzioni dovrebbe essere una claustrofobica resa dei conti che non disdegna di affrontare il tema della colpa, dell'errore e della perdita. Come si evince, tanti temi per un film che si prefigge innanzitutto funzioni scopiche: giocare cioè con le aspettative dello spettatore, chiamato in correità perché portato a simpatizzare con la sfuggevolezza ambigua del protagonista. 

La sceneggiatura di Mauro Graiani e Riccardo Irrera è farraginosa, inizialmente appesantita dai dialoghi basici tra i due personaggi e ci mette un po' ad ingranare, nonostante ci mostri in montaggio alternato l'ultima puntata condotta da Jack che dovrebbe gettare ombre sulla sua condotta caratteriale. La scelta di rinchiudersi volontariamente dentro l'ascensore è poi registicamente limitante dato che anche i POV della telecamera sono pochissimi e Coglitore, chissà perché, sembra lesinare proprio su questi. Abbondano i primi piani, abbondano le parole e anche il sadismo comincia a reclamare il suo spazio all'interno del cubicolo di metallo. Solo che il film non esplora mai il torture porn o quantomeno l'horror e sceglie di non mostrare il troncamento del dito, non ha esplosioni di sangue e sudore e mostra una levigatezza patinata un po' fuori contesto con la vicenda raccontata. Così il mercato nero degli organi che è all'origine della storia e la possibile innocenza di un uomo comunque odioso diventano il focus della seconda parte di “The elevator”. La verosimiglianza cede il passo di fronte a cotanti messaggi: che importa sapere come Katherine riuscisse ad entrare alla stregua di uno 007 nella vita di Jack, perché motivare le competenze hacker di un'insegnante di mezz'età o la presenza di un Burt Young in evidente vacanza da sé stesso? Di fronte a un film di genere come questo conta solo la marketability, l'applauso dei festival di genere e l'opulento riscontro del pubblico.

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