La recensione di "War is over", di Stefano Obino

Recensione a cura di Mario Turco

Kurdistan iracheno. Nella nazione che non esiste nelle carte geografiche pochi anni fa s'è combattuta una guerra decisiva per le sorti della regione del mondo che quei confini li traccia arbitrariamente da millenni. Il "popolo più sfortunato del pianeta", senza patria, senza diritti, senza un passato condiviso (il genocidio negato) ha sconfitto proprio su quelle terre giuridicamente "altre" l'Isis, la micidiale organizzazione terroristica che il cristianesimo ha sentito come la peggior minaccia alla propria esistenza. Così nel 2017 noi occidentali - che avevamo fornito appoggio militare ai peshmerga curdi - siamo tornati a casa dichiarando che la guerra era finita. Ma lo è davvero? Cosa resta a chi resta, per dirla con le parole del poeta? 


“War is over”, di Stefano Obino, presentato in anteprima mondiale nella sezione “Alice nelle città” dell'ultima Festa del Cinema di Roma (e a cui ci permettiamo di augurare una feconda vita in streaming e festivaliera), attraverso la forma del documentario cerca di fornire una risposta. E lo fa con una sensibilità davvero straordinaria che gli permette, aderendo ad un rigore formalistico quasi avanguardistico, di rinunciare a qualunque contestualizzazione non solo spettacolare ma perfino narrativa. Siamo distanti anni luce non soltanto dai doc presenti sulle piattaforme, con la loro enfasi tematica ed una costruzione basata sulla coercizione di un punto di vista forte ma anche quelli più classicamente divulgativi e sociali. War is over non ha infatti nessun voice-over che fornisca anche solo una rapida cronologia degli eventi accorsi, non si avvale di nessuna testimonianza locale né di una figura esterna che faccia da cerniera tra i campo profughi ripresi (come quello del Badarash, nel 2019), o le città da ricostruire. L'unico file tenue che lega le immagini ed i suoni in presa diretta sono le accorate parole di una madre che sottolineano le sue radicate paure e i primi timidi accenni di speranza. Come ci informa una delle rare e stringate didascalie, il conflitto contro l'Isis ha lasciato sul campo 1,6 milioni di persone in stato di necessità ed oltre il 50% di loro è al di sotto dei 18 anni. Ma War is over non punta a denunciare sic et simpliciter l'accidia occidentale, conclamata ed esecrabile, quanto a raccontare solo attraverso la concatenazione di una serie di riprese dal vivo prive di commento alcuni percorsi di rinascita intrapresi dai suoi strenui abitanti. 


Il lungometraggio trova la sua ragion d'essere nella produzione dello stesso Stefano Obino e di Tania Masi, e soprattutto della collaborazione della ONG Aispo (Associazione Italiana per la Solidarietà tra i popoli), che ricostruisce strutture sanitarie sul territorio curdo e fornisce formazione sanitaria alla popolazione locale al fine di gestire la situazione oltre l’emergenza. Così proprio in virtù della logistica fornita da Aispo il regista ha avuto accesso a strutture e luoghi a cui altrimenti sarebbe stato impossibile arrivare. Obino, infatti, assieme al direttore della fotografia William Chicarelli Filho, ha attraversato tutto il paese fino alla città di Sulaymaniyah, non lontana dal confine con l’Iran lasciando che la macchina da presa venisse accolta con familiarità dalle varie comunità filmate. Ecco allora che la telecamera (e il nostro occhio con essa) viene coinvolta nelle corse di bambini in abitazioni ancora segnate dai proiettili o nella tipica ritualità di una pizzeria che ha ripreso a far consegne a domicilio. Forse però la scena che più si imprime durante la visione sono i giochi d'acqua fatti da dei ragazzi in una piscina che, come una sacca di resistenza guerrigliera, si erge solitaria e fiera tra le macerie di un bombardamento. Mantenendosi sempre lontano dagli eccessi retorici – possiamo solo rabbrividire pensando a quante volte un documentarista meno empatico si sarebbe lasciato andare all'abuso della parola passepartout degli ultimi anni “resilienza”- Obino riesce con questo gran documentario a restituire la gioia di vivere di un popolo martoriato ma che continua con stoica perseveranza a liberarsi dalle sabbie mobili della Storia. Ha ragione il regista allora quando afferma che “Noi abbiamo deciso di raccontare questa energia, questa spasmodica voglia di normalità, lontano dallo storytelling mainstream, dalle solite immagini di guerra”. Perché perfino in un bugigattolo di pietra grigia i bambini giocano alla Play con gli stessi occhi spalancati , perfino in un uno scantinato disadorno ci si allena nelle pose da culturisti, perfino in una fabbrica abbandonata si mettono in scena spettacoli teatrali. La guerra è finita, la vita no.

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