La recensione de "La rottamazione di un italiano perbene", di Carlo Buccirosso al teatro Quirino di Roma fino al 5 Dicembre

Recensione a cura di Mario Turco

Carlo Buccirosso. Scrivi e ripeti: Carlo Buccirosso. Anzi, prega, mangia, ama Carlo Buccirosso perché ne “La rottamazione di un italiano perbene”, in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 5 Dicembre l'attore napoletano, regista ed interprete della piece, frantumerà le tue residuali certezze di spettatore transmediale: e se fosse proprio lui la cosa migliore capitata al cinema, al teatro e alla tv degli ultimi anni? Come se finalmente in questa ipertrofica commedia degli equivoci, alla fin fine quasi un monumento di scrittura egolatrico, ci si potesse abbandonare per le sue due ore di durata ad un piacere perversamente dilazionato nell'arco di un trentennio tra i numerosissimi ruoli di comprimario nei vari mass-media. 


In “La rottamazione di un italiano perbene” Carlo Buccirosso è Alberto Pisapia – fulminante la gag sulle difficoltà mnemoniche del nome, tra un ridondante Alberto Sordi, un inaspettato Alberto Lupo ed un mortale, in tutti i sensi, Alberto Tomba! - ristoratore che costeggia perennemente il suicidio ed allo stesso tempo l'omicidio dell'odiata suocera, funzionaria dell'Agenzia dell'Entrate che non lo aiuta nella sua perenne lotta contro il vessatorio Fisco italiano. Sin dalla sua prima apparizione in scena, disteso catatonico sul letto dopo aver ingurgitato un'intera scatola di barbiturici mentre i suoi familiari discutono delle conseguenze del suo gesto, lo vediamo in una condizione patetica ed affranta: la flebo appiccicata al braccio è in fondo la metafora dell'aiuto esterno di cui egli ha bisogno per riuscire a sopportare una vita altrimenti impossibile. Il proprietario de “Il picchio rosso” infatti si sente, come tanti altri esponenti della categoria professionale cui appartiene, perseguitato dalle cartelle esattoriali di Equitalia arrivando perfino a picchiare il nano postino (Davide Marotta), la cui unica colpa è fare da ambasciatore tributario. In questa esasperazione del luogo comune che vede l'evasione fiscale come prassi accettata e non come eccezione perfino nelle classi sociali più abbienti, la scorrettezza morale investe a raggiera tutto il racconto. A partire dalle perfide battute sulla microsomia del portalettere (“Se mi nasce un nipote da lui, a sei anni non saprei riconoscerlo dal padre”), fino ad arrivare all'infedeltà della moglie col cognato (evocata ambiguamente per i due atti fino alla realizzazione finale che suona come una campana a morto su un personaggio capace fino a quel momento di grandi slanci emotivi). Ma è proprio la drammaturgia dello spettacolo ad insistere, grazie allo stratagemma dei deliqui sempre più parossistici del protagonista, sul superamento del confine tra angoscia sognata e paura reale. Perché nei due sogni di Antonio Pisapia l'unica differenza con le ristrettezze economiche esperite da sveglio sta nella presenza del domestico filippino, pagato 750 euro al mese dal ristoratore, che invece prende ordini gratis dalla moglie! 


In questo bailamme via via sempre più violento, dalla lampada gettata in testa alla suocera fino al suo strangolamento, Buccirosso gioca in maniera sublime col registro che potremmo chiamare del “grottesco non indulgente”. Se è facile marcare i buoni dai cattivi (i due figli da una parte, il cognato dall'altra) infatti non è per niente facile etichettare il capofamiglia: che patente affibbiare a questo straripante Don Chisciotte partenopeo che sproloquia shakespearianamente sulla possibilità di rottamare o no i suoi debiti? Salendo un po' più in superficie, sia chiaro che “La rottamazione di un italiano perbene” è uno spettacolo teatrale dove si ride tantissimo, in cui dal (finto) risveglio di Antonio Pisapia sulla scena le battute e le situazioni comiche si susseguono ad un ritmo vertiginoso che ricorda ovviamente il teatro di De Filippo. Ogni singolo componente del cast però riesce a brillare solo negli scambi con Buccirosso, come se riuscisse ad accendersi soltanto rubando un po' della fiamma del suo istrione. Che, da parte sua, riempe il palco perfino accoccolato sul lettone – bella la scenografia di Gilda Recullo e Renato Lori: funzionale nel primo atto ed esuberante nel cambio di scena della seconda – e mostrando ancora una volta come la sua maestria tecnica meritasse finalmente un tale dispiegamento attuativo.

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