La recensione di "Caracas", di Marco D'Amore nelle sale dal 29 Febbraio grazie a Vision Distribution

Recensione a cura di Mario Turco

Nei film della scuola di questo nuovo vecchio cinema napoletano che impera da vent'anni a questa parte la massima "Questa non è più la mia città" dovrebbe sostituire il motto popolare "Vedi Napoli e poi muori". E gli "odi et amo" vergati in salsa partenopea sull'insostenibile bellezza/bruttezza della città hanno ormai raggiunto una bellezza versistica in grado di gareggiare, per grazia musicale ed inventiva stilistica, coi colleghi più altolocati della nostra gloriosa poesia, ovvero i sonetti. Napoli non è una città, è un sentimento, ci viene inoltre continuamente ripetuto da chiunque bazzichi anche solo per mezza giornata nei rioni del capoluogo campano. Ma questa narrazione così soverchiamente decadente - e che non rende comunque giustizia alla realtà ben più variegata - ha corroso così tanto l'immaginario cinematografico da rendere difficile portare in sala o su schermo una storia ambientata proprio in quei vicoli e in quelle strade che non sia pregna dell’ormai prevedibile romanticismo malato. 


"Caracas", di Marco D'Amore nelle sale dal 29 Febbraio grazie a Vision Distribution è forse l'esempio del limite che ha raggiunto questa visione magica ed allo stesso tempo iperrealistica di Napoli perché ne conferma tutta la mitologia perdendosi per strada proprio le più interessanti deviazioni che uno sguardo altro avrebbe sicuramente colto. Tratto liberamente dal romanzo di Ermanno Rea "Napoli ferrovia" - pur non avendo letto il testo di riferimento, i cardini della poetica dello scrittore di "Nostalgia" sono comunque ben evidenti -, l'attore e regista napoletano porta in scena una vicenda che procede per accumulo di complessità. Quasi come fossimo tratti in un inganno stilistico, l'eponimo Caracas (lo stesso Marco D'Amore, i cui limiti di recitazione in un personaggio così caratterizzato saltano ancor più fastidiosamente all'occhio) infatti passa dall'essere protagonista esclusivo del primo atto a personaggio con cui lo scrittore Giordano Fonte (Toni Servillo) interagisce per venire a patti con i suoi fantasmi e soprattutto con un fatto di coscienza che in passato lo costrinse ad andare via, appunto, dalla sua città. Proprio il tema dell'esilio forzato ed allo stesso tempo autonomo del letterato di successo che improvvisamente torna negli stessi luoghi che adesso lo venerano è condotto attraverso quel crepuscolarismo tutto napoletano che fa riferimento da una parte alla sozzura del quartiere Ferrovia e dall'altra al fascino del mare e delle pietrose viuzze del cento storico. Ma D'Amore si lascia trasportare con troppa enfasi da questa napoletanità non mettendo mai in crisi l'ormai superficiale nostalgia dell'esule, tanto da cadere a volte persino nel buffo con quelle centinaia di "maestro" e lodi affibbiate ad un autore che quando rievoca in voice-off i suoi ricordi si esprime con banalità da dilettante di provincia e non da quella specie di Nobel mancato che il film vorrebbe farci credere. 


Caracas è difatti una lunghissima ed acritica "cantata" (quelle schitarrate in un film che non riesce mai a fermarsi dal dire sempre qualcosa sottolineando o gonfiando anche l’ovvio) su uno dei tanti drammi che solo nella patria di Arlecchino possono esplodere con il carico di contraddizioni che da trent'anni al cinema e nella serialità televisiva abbiamo imparato a conoscere. Ed è davvero incredibile come la più pregna di queste incoerenze, ovvero il passaggio di Caracas dal fanatismo della violenza naziskin a quella religiosa della fede islamica, sia tirata via in una scena sbrigativa che avrebbe meritato ben altro sviluppo. Lo spazio scenico è invece purtroppo saturo di vicoli inondati dalla trita e minacciosa luce gialla, da strade bagnate ed umide ad indicare la corruzione sempre presente, da paranze di scugnizzi già condannati eppure ancora bellissimi, da pillole esistenziali sputate in dialetto che dovrebbero acquisire un folgorante senso (anche se Duce con la c dolce napoletana ha una tenerezza che i fascisti non meritano). D’Amore ha poi l’infausta frenesia autoriale di misurarsi con la rincorsa pirandelliana tra ricordi, finzione e presente dell’autore Fonte verso la sua creatura Caracas cadendo in un paio di buchi narrativi – la scena nel convento abbandonato, i fascisti ieratici che si incontrano nelle fogne – e qualche scelta di rappresentazione più vecchia del cucco, come la dipendenza da droghe di Yasmina che sembra uscita da una pubblicità progresso.

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