La recensione de "La voce umana", di Jean Cocteau per la regia di Rosario Tronnolone, in scena al Teatro Trastevere 15 e 16 Ottobre

Recensione a cura di Mario Turco

Il teatro realista sta alla vita come stanno alla natura le tele del salone delle Belle Arti. Bisognava rappresentare una donna seduta, non una donna determinata, una donna stupida o intelligente, ma una donna anonima, ad evitare il brio, il dialogo a botta e risposta, le parole da innamorata altrettanto insopportabili quanto le frasi bambinesche, in breve tutto quel teatro del teatro, che si è velenosamente, vischiosamente e sornionamente sostituito al teatro puro e semplice, al teatro vero, alle algebre viventi di Sofocle, di Racine, di Molière”. Nella prefazione alla sua opera più famosa, Jean Cocteau abusava di avverbi – altrettanto bambineschi, come le frasi messe spesso in bocca alla sua protagonista – per marcare la precisa volontà di tornare alla purezza scenica e formale dei suoi maestri. Ed è proprio questo senso di intelligente ed attuale primitivismo artistico che si respira ne “La voce umana”, di Jean Cocteau che sarà fino a stasera in scena al Teatro Trastevere di Roma per la regia di Rosario Tronnolone. Non facendosi tentare da riletture moderniste come sarebbe facile fare (a memoria, ricordiamo versioni più o meno spurie con smartphone, Facetime ed auricolari sulla metro), il regista pugliese per questo suo allestimento parte dalle stesse indicazioni fornite dal tragediografo francese presentando sul palco “un’atmosfera da scena del delitto”. La protagonista, interpretata da Siddharta Prestinari, è distesa lateralmente a terra, con la schiena rivolta al pubblico ed una vestaglia da notte che le copre a malapena il fisico nervoso. È scalza e ha i piedi neri, consumati dallo scalpiccio continuo nello spoglio salotto in attesa di una telefonata importante. L’apparecchio squilla ma è solo il primo dei tanti falsi allarmi e delle interferenze comunicative a cui la pièce sottopone la donna e il suo pubblico: la tecnologia, allo stesso tempo, avvicina e separa gli interlocutori, li rende liberi di sperimentare nuove possibilità di contatto rendendoli però schiavi delle proprie forme. Figurarsi, allora, quando i rapporti sono ulteriormente inquinati dai grumi di una relazione che si è sfaldata, immersa ancora in quella coda tossica dove lei non riesce a metabolizzare la fine e lui è già, con tutta probabilità, a sollazzarsi tra cene e nuove amori. 



A quasi cent’anni dall’apparizione - il testo debuttò infatti il 15 febbraio del 1930 al Théâtre de la Comédie-Française - La voce umana nei suoi nemmeno 50 minuti di durata resta un formidabile apologo sulla solitudine e sulla commiserazione a cui l’amore può portare. Prestinari è bravissima nel rendere, attraverso la voce e i gesti, la medietà sociale di una donna che, lontana dalla (fin troppo) celebrata versione di Anna Magnani nel film di Roberto Rossellini “L’amore”, sembra proprio incarnare l’aporia borghese di chi, nonostante buona cultura e professione, continua ancora a sottomettersi ad una relazione patriarcale più che affettiva. “Avevi ragione tu, come sempre” – lo blandisce infatti lei fin dall’inizio manifestando una dipendenza più di genere che affettiva e che culmina nel sordido gaslighting concernente l’affidamento del cane. Così anche “la promessa di una tua telefonata”, senza la quale la protagonista dice “sarei morta”, non è altro che indice di un potere diverso che fa sì che appaia ancora naturale che l’uomo reagisca in maniera egoista alla rottura sentimentale. La voce umana, come colto dallo stesso autore sin dalla sua prima, parla di una “vittima mediocre” ma è importante che la sua voce spezzata possa continuare ad esprimersi anche in questo 2024, restando purtroppo quel monito femminista ancora attuale che è e che il regista Tronnolone e l’attrice Prestinari hanno saputo cogliere con delicata riverenza.

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