Recensione a cura di Mario Turco
Il film mette infatti in scena il breve romanzo che Burroughs diede alla stampe nel 1953, facendosi guidare dalle forti analogie personali che Guadagnino avverte nei confronti di un materiale di partenza che racconta con sincerità e sfacciataggine l’attivissima vita sessuale del protagonista, la "checca" con cui il libro è stato tradotto in Italia nella sua prima edizione. Nella Città del Messico dei primi anni cinquanta, il facoltoso "gringo" William Lee vaga, perennemente alticcio, da un bar all'altro alla ricerca di uomini da portarsi a letto. Un giorno però si imbatte per strada in Eugene, giovane e aitante misterioso che incrocia casualmente in più occasioni. Abbordatolo grazie alla proposta di una bevuta in comune, i due cominciano a frequentarsi mantenendo sempre il riserbo sull'orientamento sessuale del ragazzo. Così Lee arde di desiderio per Eugene fino a quando una sera, dopo un whisky particolarmente forte, il giovane si lascerà andare alle voglie del "pervertito" (il monologo autocensorio del protagonista è una fotografia impietosa della condizione psicologica a cui erano costretti gli omosessuali dell'epoca) anziano. I due amanti cominceranno una relazione che tra lussuria e giochi di potere relazionali - la voglia di possesso dell'esuberante Lee e l'atteggiamento spesso scontroso di Eugene - li porterà infine alla ricerca di una pianta, lo yage, in grado di stimolare le abilità telepatiche ed usata perfino dai servizi segreti statunitensi e russi...
Queer è un altro tassello della poetica di Guadagnino, forse il più scoperto ma pur sempre afferente alla sua ossessione scopica, incentrato sulla insalubrità con cui tanti omosessuali vivono il proprio erotismo e la propria identità. Il primo dei tre capitoli – più l’epilogo che si concede una chiusa visionaria abbastanza fuori luogo nonostante le abbondanti droghe sperimentate da Lee – in cui si articola il lungometraggio è infatti quello più riuscito: la nascita dell’amore (parola che non viene mai detta da nessuno dei personaggi, fin troppo chiusi nel loro mondo a riconoscere gli appartenenti alla tribù “queer”) prima represso, poi consumato, infine frustrato, è una parabola che, al netto della poca originalità, è scandita con empatia dolorosa e allo stesso tempo distaccata. Il Lee/Burroughs vanesio, ciarliero, segnato dagli eccessi ma pur sempre vitalistico sopprime il suo talento (le due macchine da scrivere rimangono inutilizzate e stranamente non lo vediamo mai vantarsi dei suoi propositi letterari) lasciandosi piuttosto guidare dagli appetiti. Appetiti che lo porteranno anche nel centro della giungla pur di provare una droga che non fa sballare ma che gli potrebbe consentire di capire finalmente per via telepatica quello che prova il suo ultimo amor fou, il respingente Eugene. Queer si sforza di essere più complesso di quello che è – come sempre nei film di Guadagnino, da Suspiria a Challengers – prendendosi due ore e sedici minuti per riflettere sul bisogno sentimentale del suo protagonista e sulla sua mendace maniera di fuggirlo ma che, e forse è questa la nota più lieta di una seconda visione dopo il passaggio a Venezia, riabilita il suo egoriferito narcisismo e la sua imperizia di genere (il capitolo on the road alla ricerca di oppiacei) proprio nelle pieghe più nascoste di un cinema ossessivo e, in definitiva, ancora e sempre incompiuto.