La recensione di "Tre ciotole", di Isabel Coixet nelle sale dal 9 ottobre grazie a Vision Distribution
Recensione a cura di Mario Turco
Così ecco che "Tre ciotole", di Isabel Coixet nelle sale dal 9 ottobre grazie a Vision Distribution, tratto (molto liberamente) dal libro della scrittrice sarda, diventa il punto focale di una riflessione intesa a sondare i limiti e i pregi di una testimonianza così fortemente ancorata al presente. Antonio (uno splendido Elio Germano) e Sonia (una Alba Rohrwacher invece così sempre uguale a sé stessa da risultare stucchevole dopo i primi cinque minuti) sono una coppia all'apparenza normalmente innamorata. Certo, lui è insofferente verso la sua apatia sociale e lei troppo irrigidita nella sua freddezza caratteriale ma nulla lascia presagire la fine del rapporto che avverrà invece una sera dopo una litigata non particolarmente estrema. Eppure lo chef della trattoria Senza Fine lascia dopo sette anni di convivenza la professoressa di educazione fisica perché "gli amori a un certo punto possono finire". Sonia si troverà costretta allora a sopportare il vuoto di questo trauma affrontando, inoltre, da sola anche la comparsa della neoplasia renale al quarto stadio. Tra una sorella (Silvia D'Amico) affettuosa ma sempre fuori luogo e la nascente simpatia verso un collega di scuola, la donna imparerà piano piano a prendersi cura di sé, fosse anche solo confidandosi con il cartonato di una popstar coreana o sfruttare finalmente le tre ciotole prese per caso al Carrefour per pasti finalmente salutari...
Tre ciotole è un film che, seppur profondamente distante dallo stile scabro e diretto di Michela Murgia, gli è affine per approccio e capacità empatica. La scelta di accantonare la coralità del breve romanzo originale - dodici piccoli racconti su diversi personaggi - per concentrarsi esclusivamente sui due protagonisti permette alla regista spagnola e al co-sceneggiatore Enrico Audenino di imbastire un racconto che tratta una doppia perdita: quella del sentimento d'amore e quella della salute. Come se la sofferenza emotiva fosse anticamera di quella ben più esiziale del corpo, Sonia sperimenta in breve due sconfitte da cui una donna leggermente anaffettiva come lei difficilmente sarebbe potuta uscire fuori. E invece la riscoperta della perduta umanità, purtroppo esemplificata dalla scelta registica di far riapparire come lampi i ricordi felici in grana simil 8mm, la porta fuori dalla “comfort zone” di cui l’aveva accusata il compagno in quel diverbio domestico prima della rottura permettendole di accorgersi, tra l’altro, degli atti autolesionistici delle due allieve Giulia e Flaminia. Coixet è bravissima quando si prende il tempo di personalizzare la poesia capitolina di una città che sembra rispondere alle sollecitazioni di una delle sue cittadine più sfortunate attraverso sprazzi visivi inusitati e delicati (le inflazionate Trastevere e Pigneto sono connotate con lo stupore di chi non ci vive); è meno originale, invece, quando deve portare in scena il dramma della sua protagonista, irrelata in un immobilismo supponente e rigidamente borghese (l’antipatia verso la sorella più borderline, i mancati rapporti umani dettati da un’indisponente mancanza di curiosità). Così Tre ciotole finisce per dare eccessivo spazio alla separazione affettiva della poco simpatica Sonia piuttosto che alla sua malattia, perdendo il cuore di una storia che annoierebbe anche al vernissage cui partecipa chissà per quale motivo o alla cena post-mortem in cui si riunisce il clan familiare e amicale della protagonista, in un evidente tributo – ma poco riuscito - alla vera vicenda occorsa a Michela Murgia.