Titolo: La strada per Be’er Sheva
Autore: Ethel Mannin
Editore: Agenzia Alcatraz
Pagine: 398
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 19,00 €
Autore: Ethel Mannin
Editore: Agenzia Alcatraz
Pagine: 398
Anno di pubblicazione: 2019
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Il 22 settembre 2025 a New York la Francia ha riconosciuto formalmente durante il più alto consesso politico globale, ovvero la sessione d'apertura dell'Assemblea generale dell'Onu, lo stato di Palestina. Si tratta di un atto che, seppur simbolicamente importante, non ha nessun effetto pratico e giuridico sul genocidio perpetrato da Israele nei confronti della nazione appena legittimata con così tanta pomposità dal 151esimo governo a rendersi protagonista di una tale scelta. Di fronte al movimentismo fuori tempo massimo delle potenze occidentali bisogna piuttosto, come sempre, rifugiarsi nella lettura e nello studio per cercare di cogliere il senso della catastrofe storica che sta avvenendo a pochi chilometri da noi. Ecco che "La strada per Be’er Sheva", di Ethel Mannin pubblicato da Agenzia Alcatraz con la traduzione di Stefania Renzetti, può essere uno dei tanti capitoli capaci di aprire squarci illuminanti in questo libro degli orrori.
Recensione a cura di Mario Turco
Pubblicato nel 1963, La strada per Be’er Sheva è infatti stato il primo romanzo occidentale in assoluto a raccontare dal punto di vista palestinese la Nakba, la prima delle tante pulizie etniche operate dalle milizie sioniste nel 1948 e il conseguente esodo del popolo palestinese. È interessante notare come un libro che ha tutti i santi crismi della rabbia e della denuncia - l'autrice britannica, attivista e femminista, con quest'opera voleva fare da controcanto al celebre “Exodus” di Leon Uris che nel 1958 aveva costruito un’epica della fondazione di Israele tacendo sulle violenze inflitte al popolo palestinese - sia fautore di una chiarezza di sguardo che ottant'anni di storia sionista oggi hanno quasi del tutto riscritto. Come scrive la stessa Mannin nell’introduzione, infatti, il dramma principale è lapalissiano nella sua storicità: “Altri Paesi sono stati divisi, ma hanno continuato a esistere come Stati, con il loro nome sulla carta geografica e abitati dal proprio popolo; la Palestina ha cessato di esistere, sia come nome che come Paese, e i Palestinesi come nazione”. Ma La strada per Be’er Sheva, pur potendo contare sull'imponente base documentale costituita dalla raccolta delle voci e delle testimonianze nei campi profughi ottenute in prima persona dall'autrice dai rifugiati in Inghilterra, non è un saggio né un dramma storico bensì un romanzo che trasmuta il dolore del popolo palestinese in una vicenda di finzione singolarmente esemplare. Suddiviso in tre parti dal sentore biblico - L'esodo, l'esilio e il ritorno - il libro racconta la vicenda personale del quattordicenne Anton Mansour e della sua famiglia, costretta a scappare da Lidda quando il 15 luglio del 1948 le truppe delle Forze di Difesa Israeliane occupano la città iniziando a uccidere e espellere la popolazione araba. La marcia attraverso il deserto verso l'ancora libera Ramallah è terribile: il sole cocente e i piccoli aerei neri si abbattono implacabilmente su questa torma di disperati, uccidendone alcuni e segnando in maniera profonda gli altri. Dopo grandi sofferenze e aver perso le molte proprietà terriere, il clan Mansour riesce a trovare rifugio nella casa di Gerico ma il padre del ragazzo, Butrous Mansour, non riuscirà a reggere il dolore per l'esodo coatto e morirà di lì a poco per "crepacuore". Il giovane Anton sarà allora costretto ad abbandonare la sua terra e recarsi in Inghilterra con la madre dai nonni, vivendo la sua formazione scolastica da sradicato e in attesa di potersi ricongiungere con l'amico Walid per infiltrasi insieme a Be'er Sheva, in un progetto fattivamente vacuo ma ideologicamente pregnissimo. Così quando il ragazzo tornerà in Palestina per lavoro nemmeno l'inaspettato comparsa del sentimento amoroso verso l'araba Soraya lo distoglierà dal mettere in pratica la pericolosa scelta di entrare nei territori oramai occupati illegalmente da Israele...
La strada per Be’er Sheva è un romanzo che sconta due peccati originali: esser pensato per un pubblico non ancora iperconnesso come quello odierno ed esser scritto da un'autrice che si muove partendo da un'ottica di benevolo paternalismo ma che non riesce mai ad andare oltre la genericità di una denuncia allarmata. Queste due tare rendono la scrittura di Mannin eccessivamente ingolfata da un sentimentalismo atto a procurare empatia, più attenta a scavare nella psicologia dei comprimari - l'eccessivo spazio dato all'affettazione british della vecchia Elspeth e della svampita Rosa Rosenberg – che entrare dentro il nodo irrisolto della questione palestinese. Così prima di leggere le parti migliori del libro, ovvero il drammatico inizio e il tristissimo finale, bisogna purtroppo passare attraverso le forche caudine della lunga componente centrale che, pur ambendo alle forme del romanzo di formazione in salsa sociale/storica, finisce per balbettare di pruderie adolescenziali ed etichetta di Sua Maestà. Un vero peccato per un romanzo che se fosse stato maggiormente cesellato – Ethel Mannin ha scritto più di 100 libri e qui lo stile ne risente – sarebbe diventato sicuramente un classico della diaspora palestinese a tutte le latitudini.
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