La recensione di "Misura per misura", con la regia di Giacomo Bisordi in scena al Teatro India di Roma fino al 14 dicembre

Recensione a cura di Mario Turco

William Shakespeare è un monumento della cultura occidentale che può essere innalzato per sancirne l'importanza presso le nostre latitudini o viceversa, come ci ha insegnato la storia recente, può essere abbattuto quando si arriva a reputarlo un cascame oramai deleterio di una tradizione sentita come irricevibile. Come spesso capita ai ribelli del loro tempo, lo scorrere del tempo ha rivestito infatti gran parte delle opere e dei temi esplorati dal Bardo di una patina retrograda che viene spesso avvertita come anacronistica, retaggio innocente ma pur sempre "colpevole" di un passato oscurantista e violento. Se i grandi drammi della produzione shakespeariana sopravvivono - vuoi per la forza strutturale dei loro contenuti, vuoi per la primogenitura morale che le tragedie hanno nel nostro teatro - alla foga progressista dei guardiani odierni, sono le commedie a cadere più spesso sotto i colpi delle battaglie civili. E sono soprattutto i play più licenziosi, quelli centrati sulla sessualità più spregiudicata e licenziosa, a subire le ondate di indignazione più agguerrite. 


Così il "Misura per misura", di William Shakespeare che, con la traduzione e adattamento di Chiara Lagani, il regista Giacomo Bisordi porta in scena al Teatro India di Roma fino al 14 dicembre sembra vivere al suo interno questa contraddizione. Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina, la trasposizione dell'ultima grande commedia shakespeariana nelle sue due ore e quindici minuti di durata si muove infatti secondo due direttrici quasi opposte. Da un lato, infatti, Bisordi sente l'urgenza di allargare e quasi ricontestualizzare l'evidente sessismo del testo originale in una specie di cornice extra-diegetica che verte sul racconto in prima persona di una sex-worker rumena, chiamata in causa perché oggetto delle confidenze del regista durante una prima lavorazione dell'opera a Roma. Ognuno dei cinque atti viene quindi aperto da un episodio di questa docufiction autobiografica, attraverso video proiettati o su schermo o su un telone, che anticipano - la ragazza in apertura del I atto commenta il celebre monologo di Angelo sul senso della giustizia che si sentirà soltanto nel III - o dilatano il senso dell'originale - la passeggiata della giovane prostituta nel semi-abbandonato Globe Theatre capitolino, folgorante explicit che è forse la trovata più bella dell'opera. Dall'altro lato, Bisordi, porta comunque sul palco le parti più moderne dell'opera, ovvero la messa alla berlina dell'ipocrisia dell’ondata di pudicizia introdotta dal perfido consigliere del Duca e, allo stesso tempo, la condanna della bestiale volontà fornicatrice dei suoi principali personaggi, dal ribaldo Claudio alla subdola Mariana. 


Così, questa versione di Misura per misura da un lato sembra voler ribadire la centralità del testo riprodotto mostrandone le potenzialità polemiche ma dall’altro cerca di distruggerlo dall’interno attraverso una serie di scelte non sempre compiute e, a volte, fin troppo esplicative. Se, come accennato, funziona molto bene la rifunzionalizzazione operata dal duro racconto di vita della prostituta rumena – che sceglie di eliminare da questa pièce la ruffiana Madonna Strafatta, maschera fuori tempo massimo che serve da sfogo ad una critica intrinsecamente borghese – a lasciare attoniti sono alcune forzature. Dai titoli di testa in videowall su una base discotecara con montaggio punk sull’elezione di Bergoglio (non si capisce il nesso tra la Vienna del testo in cui frati e suore sono in fondo soltanto due forme istituzionali e l’odierna Roma papalina) alla stanchissima “messa in scena della messa in scena” in cui il Duca detta teatralmente battute e modi coreografici agli altri personaggi, Misura per misura vuole mantenere alto il volume dei decibel della provocazione finendo però per stordire per sfinimento che piuttosto colpire con qualche riuscita dissonanza. Avesse rinunciato a qualche rumore di contorno, la trasposizione di Bisordi avrebbe sicuramente giovato dello straordinario lavoro multilinguistico (dal fiammingo del protagonista attoriale Arne De Tremerie al rumeno della narratrice fino all’inglese di necessità di Isabella) e della bellissima scenografia dominata da bagni chimici che funzionano come celle di prigione. Nemmeno William Shakespeare avrebbe accettato un simile barocchismo di scrittura.

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