Recensione: Miei fratelli perduti, di V.V. Ganeshananthan

Titolo:
Miei fratelli perduti
Autore: V.V. Ganeshananthan
Editore: Neri Pozza 
Pagine: 383
Anno di pubblicazione: 2025
Prezzo copertina: 20,00 €

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Recensione a cura di Luigi Pizzi

Miei fratelli perduti è un romanzo potente e commovente che si apre nel 1981, a Jaffna, città nel nord dello Sri Lanka, dove vive Sashi Kulenthiren, una ragazza tamil di sedici anni con un sogno: diventare medico come il fratello maggiore Niranjan. Frequenta gli studi, è diligente, ha ambizioni personali e affettive — sente un legame profondo con il giovane K, suo amico d'infanzia e aspirante studente di medicina. Tuttavia, attorno a lei cominciano a crepitare le tensioni etniche tra la maggioranza singalese e la minoranza tamil, e la vita quotidiana si spacca con eventi che nessuno poteva ignorare troppo a lungo.  Il primo trauma che innesca il cambiamento è la morte di Niranjan, colpito negli sconvolgimenti seguiti a “anti-Tamil riots” a Colombo. Questa perdita diventa un punto di non ritorno, spingendo i fratelli restanti, Seelan e Dayalan, a unirsi al movimento militante Tamil Tigers. K, anche lui vicino alla causa, assume un ruolo crescente. Sashi, sentendosi divisa tra il desiderio di studiare medicina e l’urgenza morale che la guerra impone, accetta un’offerta per lavorare come medicante in un ospedale da campo gestito dai Tamil Tigers.  Man mano che il conflitto si intensifica, Sashi affronta le contraddizioni morali di dover curare persone che sono anche “nemiche”, e assistendo a ingiustizie, violenze e abusi, comincia a mettere in discussione le sue alleanze. Quando alcuni leader o operatori — anche femministi tamil o figure universitarie dissidenti, come la professoressa Anjali — invitano Sashi a documentare le violazioni dei diritti umani compiute da tutte le parti coinvolte (esercito singalese, milizie tamil, peacekeepers indiani), lei si trova di fronte alla dimensione etica del suo operato: la guerra non è solo tra “noi” e “loro”, ma lascia crepe profonde dentro ogni comunità e ogni individuo. La narrazione copre quasi un decennio, e offre un ritratto stratificato della guerra civile: la sua escalation, le sue conseguenze personali, la tensione tra dovere e compassione, l’identità che vacilla, la famiglia che si disgrega, talvolta si distanzia, e infine il tentativo di raccogliere i pezzi della vita dopo tante perdite.

Immagine dal sito: https://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2013/10/29/news/sri_lanka_una_guerra_dimenticata_e_un_progetto_di_speranza-69772106/

La narrazione scorre con misura, oscillando tra momenti di calma familiare e ricordi degli anni prima della guerra, e momenti di dolore, perdita e scelta. Ganeshananthan non evita la crudeltà del conflitto: gli episodi di violenza sono descritti con chiarezza e senza edulcorazioni, ma l’autrice non per questo rinuncia alla tenerezza, alla bellezza dei piccoli gesti — una conversazione con un fratello, la cura di una ferita, l’eco dei libri. L’uso della prima persona consente una vicinanza profonda con Sashi: percepiamo il suo dolore, le sue domande, i suoi dubbi. Riappare di tanto in tanto il secondo personaggio narrativo, che rompe la barriera tra narratore e lettore, evocando la partecipazione diretta alle sue scelte. Il romanzo è articolato con una cura che alterna il ritmo pacato della vita quotidiana alla tensione della guerra: le descrizioni dei rituali domestici, del cibo, delle abitudini scolastiche contrastano in modo efficace con le scene di terrore, i rastrellamenti, i momenti in cui la comunità tamil viene oppressa. I personaggi secondari sono tratteggiati con delicatezza ma efficacia: i quattro fratelli di Sashi, ciascuno diverso l’uno dall’altro (uno studente modello, un altro più impulsivo, un altro ancora che sceglie la via delle milizie), la madre e il padre che cercano di tenere insieme ciò che il conflitto vuole lacerare, K — amico d’infanzia, scaltrito, mai completamente distante — e infine le figure degli insegnanti, dei medici, di chi opera accanto ai feriti. Nessuno è monolitico: le lealtà cambiano, le paure s’insinuano, le certezze si sgretolano. 

Le tematiche affrontate sono numerose e delicate: il venir meno della sicurezza, la discriminazione etnica, la lotta di genere (Sashi deve affrontare non solo la guerra ma anche le aspettative sociali su cosa una giovane donna può / debba fare), la fedeltà familiare in tempi in cui la famiglia sembra non bastare più, il trauma individuale e collettivo, così come il peso del silenzio, del ricordo, della memoria. C’è anche una riflessione su cosa significa vivere sotto “lealtà multiple”: verso la patria, verso la famiglia, verso il proprio ideale professionale, verso la propria coscienza. In conclusione, Miei fratelli perduti è un romanzo che lascia il segno: non solo per la densità degli eventi storici che racconta, ma per come riesce a farci entrare nella mente, nel cuore, nelle paure di chi non ha scelto la guerra ma la subisce. È una lettura che insegna quanto sia fragile tutto ciò che consideriamo sicuro, ma anche quanto la speranza possa resistere — nei libri che si leggono nei momenti più bui, negli affetti che non si arrendono, nell’azione piccola ma significativa di salvare una vita, una memoria. Ganeshananthan dimostra che il conflitto non è solo geopolitica: è quotidianità, è sogno che si frange, è scelta morale. Se amate i romanzi storici dal forte spessore emotivo, che non si limitano a raccontare ma invitano a riflettere, Mie fratelli perduti è un titolo che vale la pena leggere.

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V.V. Ganeshananthan, autrice e giornalista americana, è presidente della South Asian Journalists Association, membro del consiglio di amministrazione dell’American Institute for Sri Lankan Studies e docente di scrittura creativa all’Università del Minnesota. Miei fratelli perduti, suo secondo romanzo, oltre al Carol Shields Prize for Fiction, ha vinto il Women’s Prize for Fiction 2024.

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