La recensione di "Il Maestro", di Andrea Di Stefano nelle sale dal 13 Novembre grazie a Vision Distribution
Recensione a cura di Mario Turco
La Sinner-mania dice tanto, tantissimo sul Paese che ha innalzato a mito non soltanto sportivo un atleta straordinariamente vincente ma lontano da qualsiasi epica umana. Primeggiando individualmente in uno sport che non ci hai mai visto stare per così tanto tempo in vetta, il tennista altoatesino sta portando, suo malgrado, a compimento l'ennesimo sogno revanscista piccoloborghese di una nazione ridotta a cortile dell'impero statunitense e ancillare rispetto alla stessa Europa. La conquista dal basso di un settore della vita fino a quel momento inscalabile rappresenta il compimento di quel sentimento livido che anima i cuori di tante persone schiacciate dai destini indifferenti del capitalismo odierno e non in grado di accettare le loro sconfitte nella vita reale.
La Sinner-mania dice tanto, tantissimo sul Paese che ha innalzato a mito non soltanto sportivo un atleta straordinariamente vincente ma lontano da qualsiasi epica umana. Primeggiando individualmente in uno sport che non ci hai mai visto stare per così tanto tempo in vetta, il tennista altoatesino sta portando, suo malgrado, a compimento l'ennesimo sogno revanscista piccoloborghese di una nazione ridotta a cortile dell'impero statunitense e ancillare rispetto alla stessa Europa. La conquista dal basso di un settore della vita fino a quel momento inscalabile rappresenta il compimento di quel sentimento livido che anima i cuori di tante persone schiacciate dai destini indifferenti del capitalismo odierno e non in grado di accettare le loro sconfitte nella vita reale.
Presentato fuori concorso alla 82ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, “Il Maestro” di Andrea Di Stefano sembra intercettare alcune di queste pulsioni e, anche se non c'è nessun riferimento al campione italiano più mediatico del momento, può essere letto come specchio di un mondo come quello del tennis che sta riscrivendo i linguaggi del contemporaneo. Distribuito il 13 novembre grazie a Vision Distribution, il film mette in scena la storia del tredicenne Felice Milella (Tiziano Menichelli, bravissimo), ragazzino che dopo aver trionfato ai Regionali viene obbligato dal padre (Giovanni Ludeno, a cui viene chiesto di aderire fin troppo lombrosianamente al tipo del grigio ingegnere) a cimentarsi con i più prestigiosi Nazionali. Conscio dei limiti del suo approccio numerico-statistico e di un gioco in difesa efficace ma freddo, l'uomo affianca al figlio per questo tour il maestro Raul Gatti (un Pierfrancesco Favino semplicemente strepitoso), ex tennista un tempo arrivato agli ottavi di finale al Foro Italico e che adesso cerca di risollevarsi dopo un periodo buio. I ruoli del mentore e dell'allievo sono però ribaltati: al giovane tutto concentrato nella robotica routine fisico-tecnica e l'ossessione della vittoria perseguita a scapito della bellezza del gioco, si contrappone infatti un insegnante attento a godersi la bella vita con le donne e cultore del talento puro. Una contrapposizione così polarizzante risulta sul campo esiziale- sette sconfitte su sette incontri - ma sul lato umano, dopo le iniziali difficoltà, sarà di crescita per entrambi: il giovane allenterà le briglie del giogo paterno mentre il piacione cinquantenne farà finalmente i conti con la sua salute mentale e un passato ancora ingombrante...
In Il Maestro Andrea Di Stefano alza la propria asticella filmica provando ad andare oltre il precedente episodio di genere (noir) de "L'ultima notte di Amore". Così in questo road-movie d'epoca - il film è ambientato negli anni '80, coi suoi sacchetti di monete per le telefonate interurbane, le hit di Raf e Battiato e il rilassato vestiario lidense - si fa affiancare in cabina di scrittura da Ludovica Rampoldi e da Matteo Cocco per la fotografia. Rispetto all'esordio, ecco che questo suo secondo lungometraggio risulta sicuramente molto più strutturato ma, allo stesso tempo, perde qualcosa in termini di autenticità. Le svolte della trama ricalcano infatti senza particolari guizzi tutte le tappe del racconto di formazione doppia: l'antitesi tra due diversi modi di vivere viene risolta con la solita oppressione genitoriale nel caso di Felice e l'ancor più comune (e freudaniamente mendace) mancata paternità del bagordo sciupafemmine Raul. Più attento a dosare risate e tragedia che lasciarsi travolgere in qualche altra occasione dai personaggi (lo scherzo di Gatti in chiesa lascia il rimpianto sulle possibilità inespresse della fanfaronaggine del protagonista), Di Stefano si fa inoltre prendere la mano da un certo leziosismo cinematografico, tanto da rendere platealmente il film una sorta di sequel spirituale de “L’uomo in più”, di Paolo Sorrentino o, andando nel più glorioso passato, de “Il sorpasso” di Dino Risi. Ma l’effetto ottenuto è quello di fare de Il Maestro ottimo materiale di consultazione per le scuole di cinema ma un meno efficace e sincero prodotto culturale dell’oggi. Di Stefano rimane insomma vittima della stessa procedura manualistica del suo Pietro Milella: nel cinema non si può sempre stare nel fondo campo della tradizione e del canone senza rischio ma bisogna avere il coraggio di andare a rete nel tessuto sociale di un Paese che non è sempre quello che il cinema dei maestri ci ha raccontato.





















