La recensione dello spettacolo "Metadietro", di Rezzamastrella in scena dal 2 dicembre all’11 gennaio al teatro Vascello di Roma
Recensione a cura di Mario Turco
Dopo la straordinaria escursione nei panni della Morte bergmaniana nell’ultimo film di Franco Maresco, “Un film fatto per Bene”, anche in questo spettacolo Rezza mostra di voler continuare a riflettere partendo dalla consapevolezza che la sua trentennale maschera ha ormai presso il proprio affezionato pubblico. Ne è prova in questo senso la straordinaria prima sequenza di Metadietro che giocando in maniera spudorata con i registri del teatro classico e di quello personale (il dialogo del perfomer con le registrazioni pre-effettuate, la pluralità di voci, l’evocazione del fuori-scena e la ripetizione di leitmotiv crassamente licenziosi) ne destruttura gli stilemi per arrivare ancora una volta al caos sistemico della sua poetica. Così Maccarese, “la spiaggia dei poliziotti” che in fondo sono esseri umani come noi “solo che so’ poliziotti”, diventa il punto di partenza di una navigazione prima marina (il naufragio in cui “lo strazio per i bambini dura più dei fermenti lattici”), poi oceanica (lo stretto di Gibilterra così angusto che si può passare attraverso solo stringendosi come spastici) ed infine addirittura interplanetaria. Ridotto all’osso, Metadietro si esaurisce volontariamente, ancor più dei precedenti spettacoli, nell’episodicità dei suoi frammenti, come se Rezzamastrella si contentasse di dare sfogo alle singole ispirazioni comunque fulminanti, ravvisabili ad esempio nella scena della quantificazione degli anni dei morti o in quella dell’esplorazione in assenza di gravità. Manca però, in uno spettacolo di un’ora e mezza di durata, una tensione unitaria che porti a compimento alcuni di questi lacerti mentre si avverte, soprattutto, l’eccessivo peso dato all’escapismo puro e semplice.
La politica in senso lato si prende lo spazio giusto per qualche battuta (“Pensavo fossero palestinesi e invece erano ipocriti”) e per l’unica incursione, invero stanca e quasi coatta nella sua proposizione, del pubblico sul palco, chiamato a interpretare gli onnipresenti russi del dibattito pubblico. Si ritorna allora al quesito posto ad esergo di questa recensione, potendo adesso rispondere: Sì, Antonio Rezza fa ridere ma il punto non è mai stato questo. Che ne è della frantumazione ideologica della famiglia in “Hybris”, cosa rimane della spietatezza amorale e indecente di “Fotofinish”, cosa rimane del già più pacificato ma ancora selvaggio “Bahamuth”? Metadietro è certamente ascrivibile al filone delle opere che irrobustiscono una poetica, non la delineano, ma è innegabile che dietro al divertimento di una messa in scena talmente originale – la scenografia di Flavia Mastrella ha raggiunto negli ultimi anni una bellezza e una compiutezza di sublime efficacia – da far impallidire i numerosi epigoni, resta l’amaro in bocca per questa momentanea presa di distanza dall’impegno più feroce. Si veda lo spazio scenico riservato a Daniele Cavaioli, sicuramente efficace nel suo modo alieno di vivere il palco e controcanto parossistico rispetto alla verve indomabile di Rezza, ma elemento fin troppo presente sul palco e tutto sommato innocuo in una scrittura che sembra accarezzarlo e non infierire realmente. Così anche l’apostrofe verso il pubblico, “vegetali”che non sanno far di conto e sentono l’urgenza di urlare la grandezza di Rezza ad ogni rappresentazione, sembra più rispondere al bisogno masoschistico degli spettatori che a una sentita cattiveria, mai come in questo caso avvertita più come una posa che una bruciante e attuale necessità.





















